“Mucho Mojo” di Joe R. Lansdale e il trionfo del country noir della provincia sudista americana

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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⭐ ⭐ ⭐ Buono
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⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
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Mi è molto piaciuta la definizione che il New York Time diede a suo tempo a questo “Mucho Mojo” di Joe R. Lansdale (Einaudi, 1996), descrivendolo come un bell’esempio di “country noir americano”. Perché, in effetti, la strana coppia Hap Collins e Leonard Pine (di cui ho già parlato in “Una stagione selvaggia” e “Elefante a sorpresa”), qui alla loro seconda puntata, si muove in perfetto stile urban west, trovandosi a proprio agio nelle zone noir e più selvagge della piccola città di La Borde, nel Texas orientale. In quella periferia rurale americana fortemente sudista, rude e barcollante, piena di pregiudizi e rituali etnici, costantemente disarmonica tra bianco e nero, antitesi perfetta del mito dell’America felice e dalla faccia pulita che instilla sicurezza e ordine.

Decisamente più matura dell’esordio di “Una stagione selvaggia”, da cui di fatto la storia di “Mucho Mojo” pare ripartire, questa avventura che Lansdale costruisce su misura per il suo duo di investigatori fuori dalle righe, e forse anche un po’ fuori di testa, è ben costruito, fluisce bene, si muove con disinvoltura nel ghetto, tra spacciatori di crack, poliziotti dalla mano pesante, donne che sanno il fatto loro, un serial killer ed un numero di scheletri da far pensare al giorno del giudizio. Il tutto tra una birretta e l’altra, tra le assi sconnesse della veranda, nell’alternarsi tra le cotte adolescenziali di Hap e le battute tutt’altro che edulcorate di Leonard che cartavetra il senso del pudore allo stesso modo di come lo fa con le assi del tetto di casa. Il primo, bianco sudista che ha passato qualche anno nelle patrie galere per il netto rifiuto ad arruolarsi per l’oriente, pugile e buon tiratore; il secondo afroamericano gay e veterano del Vietnam dalla mente arguta, sottile conoscitore dell’animo umano, praticante di arti marziali che non va certo per il sottile nell’azione, soprattutto quando c’è da darle come si deve.

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A fare da catalizzatore a questa storia, e cercherò nello scriverlo di evitare con cura di peccare di spoiler, è la morte dello zio Chester, una figura che ha surrogato quella paterna per Leonard, perlomeno prima che lo zio scoprisse le preferenze sessuali del nipote. Il buon vecchio Chester però prende tutti in contropiede alla sua dipartita, lasciando in eredità a Leonard un po’ di soldi, più di quanti i due siano abituati a contare, in bilico tra saltuari lavori improvvisati, e la sua casa, non proprio un esempio di manutenzione periodica per le pessime condizioni in cui versa, ma perfettamente inserita in un quartiere in cui spacciatori e loschi figuri la fanno da padrone.

Hap e Leonard decidono di trasferirsi nella fatiscente dimora del fu zio Chester, ristrutturarla per poi rivenderla ad un prezzo ragionevole, ma ben presto fanno una macabra scoperta sotto le assi di un pavimento umido su cui sono stipate pile di giornali. In un’atmosfera “Mucho Mojo”, ovvero sospesa tra rituali scaccia spiriti del continente nero (l’albero delle bottiglie nel giardino) ed una sorta di oscura alchimia sessuale, di cui forse è compartecipe anche l’ormonalità ammaliatrice di Florida Grange, una bella avvocatessa di colore, Hap e Leonard scoprono una realtà ancor più agghiacciante: sono ormai dieci anni che, nel mese di agosto, scompare dal quartiere un bambino di colore, povero e figlio illegittimo. A dar loro manforte in questa indagine, quasi mai per puro senso del dovere, anche due poliziotti di quella periferia oscura del Texas delle paludi, del caldo afoso, della pioggia scrosciante. Tutti elementi che in Lansdale non mancano mai.

Il duo Hap e Leonard si completa, nella diversità tra i personaggi che lo compongono, nel modo di ragionare, nell’osservare le cose, nell’interpretare le persone, ma soprattutto, e in questo l’autore è veramente un maestro, nell’esorcizzare i drammi del quotidiano con l’ironia. Pungente, gretta, ruvida, ma mai stantia. Per certi versi esilarante, senza che nella risata che essa strappa a chi legge evapori la tensione o si decolori la sfumatura noir della scrittura. Ciò basta a Lansdale per dare vita ad una storia vivace e tesa, senza ingrossare le pagine di tecnicismi polizieschi, evitando il ricorso ad opprimenti toni cupi, preferendo piuttosto puntare sui commenti acuti legati alle divisioni razziali, all’amicizia e all’amore così come accade nelle piccole cittadine americane.

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Joe R. Lansdale, anche in questo suo lavoro, in qualche modo raccoglie l’eredità country di scrittori come Edward Anderson, Erskine Caldwell, James M. Cain o Robert Alter ed al contempo reinterpreta la vena ironica di Raymond Thornton Chandler o di Samuel Dashiell Hammett. Ne nasce uno stile che più di altri autori contemporanei è capace di raccontare a chi legge la vita di ogni giorno nella sua ineludibile crudezza. Ma a colpirmi, in questo racconto ancor più che nel precedente della serie, è l’idea che la linea tra il bene e il male non sia così ben definita, o meglio che non sia necessariamente un angelo alato calato dal cielo a sconfiggere il demone salito dagli inferi, ma piuttosto che esista una dimensione dell’antieroe (Hap e Leonard non solo l’esempio perfetto del modello di bene) che si fa paladino di una società meno sbagliata, se non proprio più giusta.

Anche in questo libro c’è una sorta di sopraffina sapienza nella caratterizzazione dei protagonisti. E’ sufficiente, ad esempio, vestirli per le esequie di zio Chester. Ed ecco quindi che Leonard si presenta in completo verde scuro con una camicia giallo canarino ed una cravatta a righe arancioni, verdi e gialle; scarpe nere a punta e cerniere sul lato, “il tipo di scarpe che speravi smettessero di produrre più o meno nello stesso periodo in cui i Dave Clark Five smisero di fare dischi”. Una capacità che compensa ad uno sviluppo narrativo fin troppo generoso di indizi, tanto da farci intuire, con un certo numero di pagine d’anticipo sul finale, chi è il cattivo. Ma non però a rivelarci come va a finire veramente, il che lascia forse presagire l’intenzione di chi scrive a volerci coinvolgere nell’investigazione, farci sentire la pressione, vivere la parte più oscura della storia. E questo giova alla lettura!

E inoltre: