Una stagione selvaggia di Joe R. Lansdale. La prima indagine di Hap & Leonard.

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
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“Una stagione selvaggia. Un’indagine di Hap & Leonard” di Joe R. Lansdale (Einaudi, 2006) è il primo romanzo della saga investigativa dedicata, appunto, ad Hap e Leonard, i due interpreti delle numerose avventure che dal 1990, anno di prima pubblicazione americana del libro, animeranno numerose storie di questo autore, finendo per diventare negli States anche una serie televisiva di discreto successo. Scrivo tutto ciò in premessa perché, data la distanza tra l’uscita del romanzo nelle librerie d’oltreoceano e la pubblicazione in Italia è probabile, anzi è certo, che gli appassionati di Lansdale, che resta comunque uno dei miei autori contemporanei preferiti, abbiano già approcciato alla sua scrittura con successi del tipo “La foresta”, Acqua buia” o si siano già appassionati con il duo Hap e Leonard in avventure stile “Mucho Mojo” e “Bad Chili”. E se è vero ciò che penso, leggere ora, col senno di poi, questo libro, potrebbe lasciare un poco perplessi e spiegarci perché in Italia questo lavoro del texano, che ama le paludi e il pulp western, arrivi ad oltre quindici anni di distanza dalla sua prima pubblicazione americana.

Lo stile letterario e l’alchimia che Lansdale riesce a trasmettere con le parole è certamente la struttura di sostegno a tutto l’impianto narrativo. Maestro del linguaggio rude e graffiante, una vera lima grana ottanta con quello slang macho del sud, resta insuperabile nell’inventare le sue ricorrenti similitudini: "ero annoiato abbastanza da farmi una sega col pugno avvolto nel filo spinato”. Qui non è ancora a regime però con lo sbeffeggio cameratesco. Corrode, ma non troppo, e la storia traccia un solco poco profondo nella testa del lettore, ha poca incisività in uno sviluppo che, solo a tratti, s’impenna, ma sempre comunque non abbastanza da farci sudare come se qualcuno ci desse la caccia.

Hap Collins, un bianco sudista che ha passato qualche anno nelle patrie galere, pugile e buon tiratore, e il suo migliore amico Leonard Pine, afroamericano gay e veterano del Vietnam, dalla battuta tagliente e affetto da un sarcasmo ineguagliabile, sono già nella testa dell’autore, ma il loro carattere non è ancora a registro e si mostra a tratti fuori fuoco. Decisamente meglio tra i due a ben leggere, la figura di Leonard, il cui identikit mostra una discreta somiglianza ai caratteri caratteriali che ben conosce chi ha approcciato alla saga, anche nella rappresentazione del nero omossessuale del profondo sud americano, fatta senza mai offrire il fianco alla canzonatoria caricatura da osteria, ma con il rispetto assoluto della scelta dell’uomo Leonard, senza però rinunciare al suo piglio ilare. Salvo poi infilargli in bocca, nel “doppiaggio” italiano, proverbi in cui gatto fa rima con sacco, quasi che da LaBorde e le sue umide paludi la scena si trasferisca a Boretto, tra i pioppeti della bassa emiliana.

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Meno bene per il bianco Hap, che in questo “Una stagione selvaggia” più che selvaggio pare un adolescente rimbecillito da una cotta, arrapato e addomesticato a cagnolino da compagnia sempre in calore. Una compagnia, quella degli altri personaggi che si muovono nella storia, anch’essa francamente sotto tono, a tratti grottesca, perfetta comunque per un romanzo che naviga in un mare liscio come l’olio, evitando sino all’ultimo la tempesta perfetta, preferendo nella mappa del racconto seguire una rotta lineare, quasi a voler scandagliare il fondale per cercare un approdo sicuro in cui gettare l’ancora, piuttosto che azzardare strambate adrenaliniche.

C’era una volta, dunque, un paio di amici squattrinati che, a metà degli ottanta, sbarcavano il lunario con lavori stagionali, improvvisati o ai margini della legge, sempre nell’attesa di un “carpe diem” capace di cambiare loro la vita. Una svolta! Quest’ultima arriva con Trudy, la ex moglie di Hap, imprigionato, ma sarebbe meglio dire ipnotizzato, da un amore adolescente tutto ormoni e niente testa.

«Brutto cazzone,» disse Leonard. «Ti ho detto che quella puttana è velenosa. Te l'ha detto anche Paco. La conoscono bene tutti eccetto quelli che s'innamorano di lei. Se non fossi frocio forse l'amerei anch'io. Ma dal mio punto di vista è solo una puttana con la lingua lunga, e tu un coglione di prima categoria che non sa distinguere tra un'erezione e il vero, dolce amore. Buonanotte» (da Una stagione selvaggia).

Ci sono parecchi soldi in ballo. Niente di difficile all’apparenza: cercare e recuperare nel pantano maleodorante di una palude sudista (che Lansdale difficilmente si fa mancare) il bottino perduto di una vecchia rapina. A complicare le cose però, dopo un buon mezzo libro di tira e molla, ci si mette il resto della banda, per certi versi più simile a quella di paese che suona nei giorni della sagra, che ad una letale gang di temerari fuorilegge, sullo stile di Alan Ford alla Max Bunker fine anni Sessanta: Howard, finto duro e altro ex dell’incantatrice e cinica Trudy; Paco, ex contestatore del sessantotto che tutti credono morto in un’esplosione e che nessuno riconosce per il suo viso deturpato come “Il fantasma dell'Opera” di Gaston Leroux; Chub, il bambino obeso e complessato che i tanto citati anni sessanta hanno trasformato in un adulto obeso e complessato. Sfortuna vuole per Hap e Leonard, fortuna invece per chi legge, che sul finale Lansdale molli gli ormeggi, cazzi la randa e prenda il vento tingendo l’acqua di sangue.

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Lansdale, lo ribadisco, è proprio bravo. Una capacità di destreggiarsi con le parole che lo salva sempre, anche dove la trama ha una minore densità emotiva. Scritto bene lo é, capelli fuori posto pochi. Un po troppo lunghi forse, in quello stile contestazione anni Sessanta che nel libro entra con il peso di un intervento ad un congresso sui temi della rivoluzione giovanile e che mette a confronto “pace e amore” con le rivolte studentesche, il caro vecchio folk alla Bob Dylan da chitarra acustica con i movimenti radicali. Una poetica, nostalgica, trasognata rimembranza, il cui alone però persiste nell’aria come il sudore di un adolescente dopo la partita di calcetto che rischia di far mancare l’aria anche ad un boomer come me. Ma forse tutto ciò serviva a riempire qualche pagina in più d’inchiostro.

Più che un romanzo manifesto, come qualcuno ha azzardato definirlo, considero questo “Una stagione selvaggia” un gradevole prequel per capire dove nasce un’idea letteraria che, strada facendo, darà vita ad duo investigativo avventuroso, blues e pulp. Un romanzo che si legge senza il rischio di ritrovarsi spettinati o con la camicia stropicciata, ma che ha comunque il merito di farci passare qualche ora lontano dai problemi che ci assillano e nel quale il lettore attento già intravede quei bagliori dorati che anticipano un’alba piena di luce. Nota a margine: Einaudi ha più di recente riunito in un unico volume (Hap & Leonard) i primi tre romanzi della saga (Una stagione selvaggia, Mucho Mojo e II mambo degli orsi).  

E inoltre: