Il dramma attraverso la pungente lucida ironia di Suad Amiry in "Sharon e mia suocera"

librijpg
Avvertenza

Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
3 stellajpg

Spesso mi si fa notare quanta drammaticità sia insita nei libri che suggerisco sul tema del Medio Oriente e della Palestina. Prendo ad esempio i pluricitati “Fuga dall’inferno. Una storia palestinese” di Mischa Hiller (Newton, 2010) e “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa (Feltrinelli, 2011). La risposta che corre spontanea è che forse c’è tutto l’elemento della tragedia in ciò che riguarda il rapporto tra israeliani e palestinesi e che la drammatizzazione è perciò necessaria, ma rischierei di dichiarare il falso dopo aver letto un’autrice come Suad Amiry, partendo da un suo celebre libro: “Sharon e mia suocera - Diari di guerra da Ramallah, Palestina” (Feltrinelli 2003, poi ripubblicato insieme a “Se questa è vita” del 2005 in “Universale Economica” nel 2007).

Ammetto che, pur nell’intensità emotiva delle situazioni in cui l’autrice si viene a trovare, è comunque riuscita a farmi sorridere e forse anche ad andare oltre, dandomi il Là per qualche bella risata, senza tuttavia sminuire il peso della sofferenza. “Sharon e mia suocera” (Feltrinelli) è un “non libro” concepito durante la rioccupazione israeliana della città di Ramallah, una sorta di sintetico “diario di guerra”. Anzi, come ha più volte dichiarato l’autrice, questo lavoro di scrittura nasce come una terapia pensata per lei stessa, donna palestinese come tante, costretta dal conflitto a vivere una reclusione forzata fra le pareti domestiche, per di più con la propria suocera petulante, ma che poi risulta teneramente simpatica. Una narrazione ironica e divertente che ha trasformato, senza alcuna pianificazione, un architetto in una scrittrice che, nei primi due anni dalla pubblicazione, si è vista tradotta in una ventina di lingue e tutto ciò senza citare Arafat o l’OLP.

Suad Amiry, infatti, è un architetto palestinese, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura all’American University di Beirut e all’Università del Michigan, specializzandosi infine a Edimburgo. Dal 1981 insegna Architettura alla Birzeit University e, da allora, vive a Ramallah. Ha scritto e curato numerosi volumi sui differenti aspetti dell’architettura palestinese, ma soprattutto, a partire dal 2003, vari romanzi in cui, con il suo tratto carico di humor e di una satira graffiante, soprattutto nei confronti del governo israeliano, riesce ad offrire al lettore una straordinaria, quanto lucida analisi politica della situazione in cui si trovano oggi a vivere i palestinesi.

Foto interne post - Copiajpg


Era il novembre del 1947 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la fatidica risoluzione 181, che sanciva la divisione della Palestina sotto il mandato britannico in due Stati, uno arabo ed uno ebraico. Giaffa, la città che ha dato i natali al padre di Suad Amiry, finì in quella parte di mappa assegnata allo stato arabo, ma l’attacco delle milizie ebraiche descritte anche da Dominique Lapierre e Larry Collins in “Gerusalemme Gerusalemme” (Mondadori, 1972) diede origine a violenze, incendi, saccheggi, interrompendo ogni forma di pacifica convivenza fra arabi ed ebrei, anticipando di fatto la “Nakba” del 1948, la “catastrofe”, l'esodo forzato della popolazione araba palestinese dalle proprie terre. Come la gran parte dei palestinesi nati dopo il 1948, anche Suad Amiry non è nata in Palestina. Per questi profughi figli di chi visse la diaspora mediorientale, la terra dei padri è spesso più un luogo della mente che fisico, immaginato più che vissuto, raccontato e spesso mai calpestato. Ma l’autrice, dopo aver conseguito la laurea ed una cattedra universitaria, recupera le sue origini, ritorna nella terra dei ricordi paterni a cercare la casa di cui i genitori le avevano parlato con un profondo amore ed una lacerante nostalgia. Si stabilisce in Palestina.

In questo libro ella ci fa partecipi delle assurdità del quotidiano in una terra occupata. Anzi rioccupata, perché questo suo diario segna gli eventi a partire dal settembre 2001 quando, per decisione di Sharon, l’esercito israeliano stringe d’assedio Ramallah e i territori che Israele aveva già occupato. Irruzioni nelle case, devastazione, perquisizioni che spaventano e vessano gli abitanti, inutili uccisioni, spesso solo per non aver compreso gli ordini in ebraico dei militari occupanti, porte di casa fatte esplodere, autovetture schiacciate dai tank, coprifuoco infiniti. E in tutto ciò c’è la vita che continua: i bambini che devono andare a scuola, gli operai al lavoro, la corsa per trovare alimentari e gas per cucinare. Ogni minima sospensione del coprifuoco si trasforma quindi in un’occasione per folli e frenetiche incursioni in città, a cercare la suocera o l’amica intrappolate in casa, a procurarsi generi di prima necessità, ad accertarsi della situazione di amici e conoscenti, a rincorrere la scia di dolore negli ospedali e negli obitori per cercare, tra chi si conosce, chi non risponde più all’appello.

In tutto ciò però l’ironia di Amiry stempera il dolore, recupera il piacere del quotidiano anche sotto l’occupazione, i pettegolezzi, le chiacchiere dei vicini, le telefonate con gli amici, i battibecchi con la suocera, la capacità innata di trovare sempre una soluzione, una risposta, un gesto di speranza di un popolo assediato da oltre mezzo secolo. Nell’aspetto, talvolta comico della tragedia, chi scrive cerca e, spesso trova, una strategia per resistere e sopravvivere alle difficoltà di ogni giorno, ma anche per farci riflettere su temi come la giustizia, il dolore, la diversità di valori tra mondi che si toccano ma che non si comprendono, forse accomunati dal desiderio di normalità, che però per qualcuno è sostituito del senso di una vita a metà in cui tutte le persone sono uguali, ma alcune sono più uguali di altre.

Le incredibili difficoltà per muoversi nei territori occupati, costellati da assurdi check point israeliani e da altrettanto irrazionali regole e lasciapassare, quando non dall'umore dei militari che li presidiano, assumono nel racconto di “Sharon e mia suocera” la dimensione di una comica in bianco e nero, se non fosse per i risvolti drammatici che tutto ciò ha nel quotidiano di chi le vive. Altrettanto spassoso è il botta e risposta dell’autrice in arrivo all’aeroporto di Tel Aviv con i funzionari del controllo passaporti, cui mancano solo le risate gregarie in sottofondo.

Foto interne post - Copia 2jpg


Chi mi legge ora penserà che quello che sto per scrivere poco ha a che vedere con questo libro, ma ciò che nel 2017 ebbe a pubblicare la rivista “Internazionale” circa il suo festival d’ottobre in cui erano invitati ben cinque palestinesi (tra cui la Amiry), ha molto in comune con lo spirito e la scrittura di questa autrice, ma soprattutto con quello che cerca di comunicarci. Nell’articolo è sintetizzato il “calvario logistico” che gli organizzatori dovettero affrontare per quella reunion di palestinesi dispersi in differenti paesi. 

Scrive su Internazionale Suad Amiry: “I due della diaspora, ovvero Selma Dabbagh ed Elias Sanbar, vivono rispettivamente a Londra e a Parigi, mentre quelli non della diaspora, ovvero Atef Abu Seyf, Rula Halawani e io, viviamo in differenti parti dei territori occupati: Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania. La distanza tra Ramallah, dove vivo io, e Gerusalemme, dove vive Rula, è di appena 14 chilometri. Eppure, io e Atef (come i cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza) non possiamo andare a Gerusalemme, neppure nella parte araba. E naturalmente né Rula né io possiamo raggiungere Gaza, dove vive Atef Abu Seyf, a causa del blocco imposto alla Striscia dal 2007. Per volare in Italia, non potremo usare lo stesso aeroporto. A parte Rula, che ha un documento d’identità rilasciato a Gerusalemme, dal 2000 né io né Atef, ancora una volta come altri cinque milioni di palestinesi, abbiamo il diritto di usare l’aeroporto di Tel Aviv. Atef dovrà uscire da Gaza attraverso il valico di Rafah e prendere l’aereo al Cairo, mentre io dovrò viaggiare da Ramallah ad Amman e partire dall’aeroporto della capitale giordana. Se poi uno qualsiasi di noi volesse incontrare i suoi colleghi della diaspora a Londra e a Parigi, dovrebbe richiedere un visto britannico o uno francese. E sappiamo tutti cosa significhi ottenere un simile visto per chi ha un passaporto palestinese”.

“Sharon e mia suocera” va oltre il racconto di un’occupazione militare, è il lucido resoconto di un vissuto assurdo che si perpetua nel tempo e con tale metodicità al punto da voler farci credere che vivere nell’ingiustizia sia una cosa cui ci si possa abituare.

Vedi anche