Fuga dall’inferno. Una storia palestinese di Mischa Hiller. Il racconto dimenticato dell'eccidio di Sabra

Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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La mia valutazione su questo libro:
3 stellajpg

Chissà perché il mercato editoriale italiano ha sempre la necessità di stravolgere, nella traduzione dei romanzi stranieri, il titolo dei libri, offrendo spesso al lettore una distorsione assoluta del contenuto degli stessi, sovente peccando di quella superbia tesa a pensare che l’italiano medio non sia proprio in grado di comprendere di cosa parli un libro attraverso il suo titolo originale. Sarebbe forse ora di rendersi conto che almeno quella risicata percentuale di italiani che leggono (pochi) abitualmente (pochissimi), siano perfettamente in grado di valutare un libro, anche quando un titolo, di fatto intraducibile nel volgo italico, resti l’originale. E’ il caso questo di “Fuga dall’inferno. Una storia palestinese” di Mischa Hiller (Newton, 2010) che, se non fosse per quell’inciso che fa riferimento alla Palestina, altro non sembrerebbe che la sceneggiatura di un disaster movie o di una avventura per “l’uomo che non ha bisogno di chiedere” alla Escape Plain con Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger che, nemmeno a farlo apposta, ha come spalla al titolo proprio la sottolineatura “fuga dall’inferno”.

Il titolo originale di questo lavoro è decisamente più aderente al racconto: “Sabra Zoo”. Lo è perché di fuga qui c’è veramente poco, semmai c’è l’impossibilità di fuggire al proprio destino e al terribile massacro che, nel settembre del 1982, fu operato con sistematica spietatezza dai falangisti libanesi entrati nei campi profughi di Sabra e Shatila, a Beirut, rimasti senza alcuna protezione internazionale dopo il trasloco dei contingenti di pace. Una feroce, inumana, raccapricciante carneficina di civili musulmani palestinesi e libanesi, avvenuta sotto gli occhi di un’impassibile, quanto connivente esercito di occupazione israeliano, ai danni di una popolazione inerme stipata in uno “zoo” (così com’era etichettato il campo profughi dai falangisti), da parte della milizia falangista cristiana, col pretesto di dare una risposta all’assassinio del presidente eletto Bachir Gemayel, avvenuto qualche giorno prima.

Di quel massacro, di cui alcune scene inenarrabili per la crudezza con cui la violenza ha saputo accanirsi su esseri umani inermi, abbiamo già letto in “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa (2011 Feltrinelli, ora in Universale Economica Feltrinelli - traduzione Silvia Rota Sperti). Sventramenti, decapitazioni, evirazioni e quant’altro la brutalità umana fosse in grado d’immaginare è accaduto a Sabra e Shatila ed ha fornito ispirazione al film d'animazione di Ari Folman del 2008, “Valzer con Bashir”, in cui quegli eventi sono raccontati dal punto di vista di un soldato israeliano. Questo romanzo d’esordio di Mischa Hiller ci offre la prospettiva palestinese di ciò che accadde nel Libano sette anni dopo l’inizio della guerra civile in una Beirut invasa dalle forze israeliane intenzionate a espellere l’OLP, o ciò che ne restava, visto che il grosso dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina già era stato “aiutato” ad abbandonare il paese, scortato dai contingenti internazionali che solo pochi giorni prima avevano salpato dalla rada della capitale del Paese dei cedri.

Ivan ha 18 anni ed è un ragazzo normale, se per normale s’intende essere il figlio di madre danese e di padre palestinese, con la peculiarità di una paternità che milita nei quadri dell’OLP. Genitori che, dovendo abbandonare il Libano, lo hanno lasciato a Beirut a gestire, sotto copertura, un lavoro di smistamento documenti come corriere per l'OLP. D’altro canto il giovane Ivan la sua vita già da un pezzo l’ha vista stravolta durante i bombardamenti a tappeto israeliani, una pioggia di bombe durante la quale egli prestava servizio in una stazione di radio collegamento dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ordigni sotto i quali per poco non è rimasto morto e stecchito.

Si fatica ad immaginarlo, pensando ai diciottenni del nostro mondo occidentale, ma la guerra e la quotidiana lotta per sopravvivere ti fanno maturare in fretta. Ivan beve troppo, gli piace tirare uno spinello quando capita ed ha un disperato bisogno di essere iniziato ai piaceri del sesso. Ma in questa Beirut devastata dalla guerra e in cui gli spostamenti gli sono garantiti dal suo passaporto danese, le uniche donne con cui può tentare di approcciare sono le volontarie scandinave che lavorano come personale sanitario nell’ospedale di Sabra in cui egli è reclutato ufficiosamente come interprete.

La scrittura regala al racconto un discreto movimento, non è mai esitante e l’autore, pur al suo esordio, sfruttando le tirate notturne del giovane Ivan, i suoi incontri con volontari e pazienti e la storia d'amore che pare germogliare con Eli, un'attraente fisioterapista norvegese, riesce ad immergerci nel contesto libanese del 1982, offrendoci il quadro politico e militare della regione senza alcun tecnicismo geopolitico o militare, in modo naturale. Hiller ci fa entrare senza preamboli nella realtà del campo profughi palestinese di Sabra; ci racconta in modo vivido e schietto di come vivevano e soprattutto in quali condizioni psicologiche operavano i volontari occidentali impegnati nell’assistenza, così come i reporter ed i giornalisti di base a Beirut in quegli anni.

In ogni passaggio del libro si percepisce però un palpabile senso di inquietudine. Come l’idea che qualcosa stia per accadere, in un’attesa che si consuma tra i conciliaboli agli angoli di strada e nei bar, nelle gestualità sempre più nervose degli adulti di cui Ivan si circonda ed è protetto, surrogato di una famiglia frantumata dalla guerra. Una miccia che brucia lentamente e che finisce per dare corpo ad una deflagrazione che incendia l’atmosfera. Anche se in verità, per chi legge, l'attacco brutale dei Falangisti che Hiller vuole mostrarci si muove da principio tra le righe, non esce subito allo scoperto, non emerge da una anormale normalità, quasi si perde nell'inquietudine del quotidiano. Che, a pensarci bene, è proprio l'atmosfera che Beirut respirava in quelle drammatiche ore in cui i tank israeliani sorvegliavano le vie di accesso alla città.

La narrazione fa poi un balzo improvviso: passa dall’attesa alla consapevolezza, alla realtà dei fatti nuda, cruda, disumana. Le descrizioni che Hiller fa delle vittime e dei sopravvissuti attraverso lo sguardo di Ivan, i suoi conati di vomito, la respirazione convulsa, sono strazianti, ma mai esagerate. Non c’è un inferno creato ad arte quale narrazione di propaganda bellica di una parte in causa. C’è solo l’inferno che è di fatto ciò che resta. L’azione dei falangisti si racconta nel nauseante odore dei corpi, nelle immagini dei bambini smembrati, con il cadavere di una donna a cui è stato asportato e lacerato il feto. La scrittura, sino a questo punto del libro virtuosa nell’intreccio tra sentimentalismo ed umorismo di sopravvivenza, si trasforma in un ematoma bluastro e doloroso, in una prosa di grande forza in cui il ragazzo Ivan ora è solo Ivan. Lui non scappa, ma evolve.

Ivan, testimone di uno dei più grandi disastri umanitari del Medio Oriente ora guarda avanti, e non solo per lui. Scruta oltre l’orizzonte, sapendo che non potrà dimenticare nulla di ciò che ha visto. Un libro da leggere per sapere, ma soprattutto per gettare lo sguardo oltre la soglia del nostro mondo libero e non dimenticare chi, quel mondo, non potrà nemmeno immaginarlo.