Tragico quanto esilarante. “Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione” di Suad Amiry

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Avvertenza

Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
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Dopo aver letto "Sharon e mia suocera: diari di guerra da Ramallah, Palestina" (Feltrinelli, 2003) di Suad Amiry, uno strepitoso ed irresistibile diario di guerra dai Territori Occupati, condito dall'irresistibile humor dell’autrice, mi è stato impossibile rinunciare a leggere il suo continuo dal titolo “Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione” (Feltrinelli, 2005). Va detto che i due libri sono stati, successivamente alla loro pubblicazione, raccolti da Feltrinelli in un unico volume. Sulla falsariga del “primo tempo” anche in questa “ripresa” Amiry scende in campo con una scoppiettante autobiografia capace di trasformare un dramma, quello della difficile e quasi impossibile quotidianità che subisce chi vive nei Territori Occupati (in questo frangente la Cisgiordania), in una commedia mediorientale governata dall’ironia e che sovente sfocia nella gag comica.

È uno stile di vita che nessuno di noi riuscirebbe a gestire per più di una settimana lavorativa, weekend escluso. Ma per Suad Amiry ed i suoi vicini, gli amici, i parenti che vivono accanto a lei a Ramallah è la normalità. Una normalità caotica, frammentata, non programmabile, rischiosa e talvolta dolorosa, ma questo è. Ed in questo la vita continua, quasi come in una follia sospesa nel tempo, a galla in quel mare di contraddizioni che è l’occupazione da parte di Israele. Situazione di guerra perenne che, a tratti, assume i contorni di una soap opera, ma che tanto divertente in fondo non lo è, se non fosse che in quella obbligata abitudinarietà alla sopravvivenza, sugli eventi che scandiscono le giornate, ogni palestinese ha trovato il modo di riderci sopra, tanto è l’assurdità di ciò che accade.

Ed è così che in un fazzoletto di terra in cui ci si muove con i tempi del coprifuoco e per spostarsi di pochi chilometri si devono affrontare oltre trecento checkpoint israeliani, per un palestinese con la carta d'identità di Ramallah (che gli rende illegale vivere a Gerusalemme) è assai più complesso e difficile (se non impossibile) ottenere un passaporto per Gerusalemme di quanto lo è invece per Nura, il cane dell’autrice, che dopo esser stata vaccinata in un ambulatorio veterinario battente bandiera israeliana, ha ottenuto l’agognato lasciapassare. Ed ecco la sceneggiatura per la commedia, tanto assurda da non sembrare nemmeno possibile: il cane può teoricamente attraversare liberamente i checkpoint, mentre a Suad ed alla sua vettura servono due diversi permessi e lunghe file. Perché quindi non spiegare al militare con la stella di David, tra le pieghe della latente pazzia, che lei è l'autista di un cane di Gerusalemme e che non potendo lo stesso guidare, lei gli fa da autista?

Tutto ciò conferma quanto Suad Amiry ha spesso dichiarato nelle interviste: “quando si vive come noi palestinesi dei Territori, sottoposti a umiliazioni, ingiustizie, limitazioni della propria libertà, non ci si esprime mai fino in fondo perché si rischia la pazzia o l’arresto. Si cercano strategie di sopravvivenza, ci si attacca alle abitudini per isolarsi. Siamo come una pentola col coperchio: per troppa pressione ogni tanto esplodiamo”.

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L’architetto Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, insegna oggi alla Birzeit University ed è tornata a Ramallah dalla diaspora per amore, affrontando l’attesa di ben sette anni per il rilascio della sua carta di identità dei Territori Occupati. Con un graffio narrativo non comune, ella ci fa partecipi della via crucis palestinese, ci coinvolge nei piccoli e grandi contrattempi della sua vita, ci fa simpatizzare nuovamente con Umm Salim, l'ingombrante e svagata suocera ultranovantenne, e con il marito, rassegnato ormai all’incontenibile forza di ribellione della donna di cui si è innamorato. Sullo sfondo di questo quotidiano così irrazionale e a tratti disumano, una sorta di zoo del pregiudizio in cui nessuno tenta più la via della mediazione culturale, c’è la polvere sollevata dai bulldozer israeliani che demoliscono le case, schiacciano auto e sradicano gli ulivi piantati da padri dei padri.

“Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione” è un insieme di episodi, di scene recitate da gente comune, in cui Suad Amiry, gli amici, il marito paziente, la suocera resiliente, il suo cane si alternano sul palcoscenico. Si mescolano nella recita ai militari, ai collaborazionisti, ai vicini di casa che improvvisano un party in giardino nel caos incontrollato di una distribuzione di maschere antigas all’interno di un autobus militare in previsione di un attacco lanciato da Saddam Hussein a Israele durante la Guerra del Golfo. Si ride praticamente per non piangere, ma soprattutto per non consentire ad una guerra che ormai non ha più età di calare il sipario della rassegnazione silenziosa. L’autrice pare voler riscoprire, nel suo modo di narrare, gli antichi hakawati, i cantastorie che giravano nei caffè di quel Medio Oriente in cui due popoli sembrano essersi girati le spalle per sempre.

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Ma c’è anche la forza delle donne in questo libro. Anzi direi che è la vera forza vitale che rende l’insostenibile sopportabile, che regala ad un quotidiano fatto di vessazioni e irragionevolezza quella luce che serve per poter guardare al giorno dopo. Perché è così che si va avanti. Amiry ci parla di donne piene di energia, di iniziativa, donne vive (in contrasto forse con quelle delle zone rurali in cui religione e ignoranza le collocano in una specie di medioevo, quello raccontato in “Bruciata viva” di Suad). Ce ne parla ricordando la “Festa della Donna” a Ramallah in cui le palestinesi esprimono tutta la loro rabbia contro l’occupazione e contro certi uomini. D'altro canto l’autrice, negli anni ’90, faceva parte di un’organizzazione pacifista che si chiamava Network e nel 1995 si trovava a Washington per la firma degli accordi di Oslo, parte della delegazione palestinese. A tale proposito fa sorridere, in alcuni passaggi del libro, il suo richiamo alla sussurrata comprensione di Arafat, innanzi ad alcuni momenti di quasi comico cedimento ideologico della causa.

"Palestinesi in viaggio di relax in Egitto” è certamente uno degli episodi più divertenti, ma anche più emblematici di come la patologica presunzione israeliana di categorizzare le persone, in modo particolare se associate all’aggettivo palestinese, sfoci in una sorta di isteria di confine e claustrofobica sindrome dell’assedio. Un’immagine che si rafforza innanzi al “muro”, simbolo della divisione e della prigionia, gabbia in cui rinchiudere e in cui rinchiudersi, freddo e grigio confine in cui un vecchio palestinese, in un punto sulla mappa chiamato Kalkilya, chino sulla terra dei suoi avi, ostinatamente ripianta gli olivi sradicati dalla follia di chi si vanta d’essere il popolo eletto.