Tra le liriche meno note della beat generation con Kerouac and Co. beat city blues

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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La mia valutazione su questo libro:
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Mettiamolo subito in chiaro, a scanso di equivoci, il poeta simbolo indiscusso della “beat generation” è Allen Ginsberg. Ribelle della sua epoca sin dalla da quando frequentava l’università. Cresciuto all’ombra del maccartismo, egli proviene da una famiglia benestante americana, di origine ebraica e dalle solide convinzioni progressiste, democratiche, filocomuniste. Egli è, tra gli artisti che caratterizzano quell’epoca, quello che più di altri nel suo modo di essere anticonformista e nel suo stile tutt’altro che solenne, ma fortemente intimistico, ci guida all’interno dell’esperienza “beat”. Ce ne trasmette l’essenza.

Non è però certamente l’unico! Egli si confronta con altri artisti e scrittori, autori chiave, talvolta iconici, del periodo “beat”. Basti citare Jack Kerouac e Neil Cassady per fare un esempio concreto. Vi sono però, nella penombra letteraria della “beat generation” anche altri autori, poeti in questo caso. Alcuni li propone questo “Kerouac and Co.: beat city blues“, un libro di 31 pagine pubblicato nel 1995 da Stampa Alternativa, disponibile anche in formato ebook pdf gratuitamente. Una piccola, ma godibilissima raccolta, curata da Luca Scarlini che, accanto ad un paio di poesie del celebre autore di “On The Road” (Sulla strada), affianca i versi di altri esponenti della corrente beat meno noti al grande pubblico.

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Subito dopo “16 settembre, 1961” e “Strappa la mia margherita” di Jack Kerouac, tradotte rispettivamente da Elisabetta Beneforti e Riccardo Subri, troviamo liriche conosciute di Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, che il curatore del libro definisce, non a torto, “altrettanti punti fermi in un discorso critico al di là delle mode e dei pregiudizi”. Basta leggere i “numeri” di Ferlinghetti per comprenderlo, tuttavia ciò che di veramente originale ed interessante si può ritrovare in questo piccolo volumetto, quasi un quaderno da tenere sul comodino, è la possibilità di uscire dal tracciato principale dell’eredità letteraria della “beat generation” ed addentrarsi in qualche sentiero fuori dall’itinerario tradizionale.

Tappe meno affollate sono certamente quelle offerte dalle liriche di Frank O’Hara, Denise Levertov, Diane Di Prima e Leroi Jones, tutti esponenti della galassia artistica che non ha certamente goduto della ribalta e dei riflettori della Scuola di San Francisco, ma che ha comunque saputo interpretare il proprio tempo e la voglia di un rinnovamento sociale e culturale che ha lasciato una traccia netta e indelebile nella società occidentale nel dopoguerra.

Anche chi non è particolarmente amante della poesia, e forse posso annoverarmi io per primo tra questi lettori, trova qui quel giusto equilibrio tra l’estetica e la comprensione, tra l’onirica visione del verso e l’essenza di un sistema esistenziale, di una filosofia di vita che cercava, anche nelle parole, oltre che in una sorta di sregolatezza assoluta, di esteriorizzare un disagio profondo nei confronti delle istituzioni e del ruolo che le stesse assegnavano all’individuo. Certamente aiuta la dimensione ridotta del libro, assolutamente non claustrofobica, che invita il profano o il non specialista ad ascoltare senza correre o contare le pagine. Perché la poesia è anche suono.

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Ora, pensare che una piccola antologia poetica sia la chiave di volta per comprendere il fenomeno “beat generation” o penetrare nello spirito ribelle e avventuroso dell'America degli anni '50, sarebbe assolutamente illogico, oltre che presuntuoso. La considero e la propongo come una passeggiata in un parco nella stagione autunnale, tra i colori delle foglie che iniziano a cadere, l’aria frizzante, ma non ancora fredda. Una camminata tra amici, alcuni di vecchia data, altri amici degli amici. Come Frank O’Hara, di Baltimora, che già corre incontro all’inverno, Leroi Jones che alza il bavero della giacca per difendersi dal vento, Gregory Corso che ama il jazz di Charlie Parker, perché questa nuova musica nera va oltre il muro del suono. Ma quella con cui mi trovo meglio è Denise, che come me ama i versi di William Carlos Williams “cercando di calmare la mente dalle chiacchiere" e ritrovare in se stessi lo spirito della generazione beat.