Sulla strada con Sal Paradiso: il manifesto della generazione beat di Jack Kerouac

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
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Quando riprendo tra le mani uno dei libri che vanno letti almeno una volta nella vita, provo sempre una certa inadeguatezza nel parlarne. Non fa eccezione questo “Sulla strada”, universalmente conosciuto con il titolo originale di “On the road” di Jack Kerouac. Non posso dire sia uno dei libri di quel periodo che mi è piaciuto di più, ma resta senza dubbio, in considerazione dell’epoca in cui è stato pubblicato, un’icona generazionale e della letteratura “beat”. Come mi disse qualche anno fa un appassionato relatore ad un convegno sulla “beat generation” questo “è un romanzo che ha catturato lo spirito ribelle e avventuroso dell'America degli anni '50 ed è diventato un'opera fondamentale nella storia della letteratura americana”. Lo è senza dubbio mi sento di dire, come è certo che questo romanzo uscito nel 1957, ma che snoda la sua narrazione errante in un lasso temporale compreso tra l’immediato secondo dopoguerra e il 1950, rappresenta uno dei testi più influenti e celebri della cultura d’oltreoceano del XX secolo, capace di influenzare anche il pensiero europeo.

Non a caso ne conservo in biblioteca un paio di copie. La prima, una edizione curata dalla San Paolo all’interno di una collana dedicata ai “Grandi della narrativa” edita nel 1998, che si arricchisce di una sezione iniziale dedicata alla vita dell’autore nato nel 1922 e alle sue opere, con una sintetica, ma efficace bibliografia di approfondimento. La seconda, nella tradizionale edizione degli Oscar Mondadori (1995) nella collana “Scrittori del Novecento”, impreziosita da una bellissima introduzione dedicata alla “beat generation” firmata da Fernanda Pivano. In entrambe le stampe la traduzione è affidata a Magda de Cristofaro.

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A priori dico subito che, rivedendo anche i miei paranoici appunti di gioventù sui libri che leggevo (ero già un seguace del culto pagano dei libri, quegli stessi oggetti sovversivi che Ray Bradbury brucia nel 1953 nel suo celebre Fahrenheit 451), che le mie impressioni su “On the road” sono mutate più volte. Se nella foga idealista post adolescenziale lo avevo descritto e raccontato come l’essenza della fuga, dell’indipendenza, della scoperta, dell’esperienza, tanto poi da fare scelte che nella vita riflettono quell’idea e quelle sensazioni (ho scelto di viaggiare per anni in giro per il mondo rinunciando alle certezze di un lavoro sicuro), nella rilettura più matura ne ho ricavato sensazioni certamente più nostalgiche, una visione più distaccata di certi eventi fuori dalle pulsioni dal contesto storico in cui si svolgono. Dunque anche una minore speditezza nella lettura, che a tratti, lo confesso, mi ha quasi disorientato, benché la mia esperienza su latitudini e longitudini mi corra sempre in aiuto. Inseguire Sal Paradiso ed il suo circo di amicizie un po’ folli non è una passeggiata in piano, ma un po’ di cinetosi si può sopportare.

Ne desumo che ciò sia l’effetto di quella che Kerouac stesso ebbe a definire come una “prosa spontanea” e che quella incredibile spontaneità che l’autore trasferisce alla sua scrittura mi è apparsa come l’immagine in velocità delle righe al centro della strada che si percorre. Insomma, si deve metabolizzare la velocità e al contempo il senso dell’istantanea. Si deve cogliere l'istante perché, in quanto tale, è irripetibile, non più rielaborabile all’interno di un testo scritto per catturare il flusso di coscienza e l'energia del movimento, essenza stessa del viaggio che spinge gli interpreti a girovagare con, ma anche senza, una meta precisa. Una necessità vitale per una gioventù ribelle che cerca di sovvertire l’ordine sociale e culturale in cui si trova a vivere e al quale rifiuta di conformarsi.

La Hudson dei protagonisti, che corre, scivola via, quasi senza una rotta precisa, sulle strade d’America, incarna lo spirito d’avventura, la voglia di improvvisazione, di estemporaneità del periodo beat. «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero» diceva Orazio, “mentre parliamo il tempo sta fuggendo, come se ci invidiasse. Cogli l'attimo (afferra il giorno) e spera il meno possibile nel domani”. Il romanzo di Kerouac è un “carpe diem” che ha caratterizzato un’epoca in cui, le ferite ancora aperte di chi tornava dal fronte della Seconda Guerra Mondiale si mescolavano ad un’insofferenza generazionale che contestava i padri, ma anche il sistema del buon vivere americano, delle politiche del potere guerrafondaio e cercava una nuova filosofia di vita. Un ricerca che, negli anni che seguiranno, influenzerà fortemente la gioventù americana, i movimenti pacifisti, le arti, la narrazione della vita stessa.

Per chi non ne abbia mai sentito parlare, dico subito che il romanzo è diviso in cinque parti. Kerouac racconta di una incredibile serie di viaggi in autostop e autobus, in gran parte improvvisati, fatti dal veterano Sal Paradiso (oggi diremmo l’avatar di Kerouac stesso) e dai suoi amici attraverso gli Stati Uniti. Kerouac lo scrisse in poco meno di un mese, nella primavera del 1951 nella sua dimora di New York, rielaborando i suoi diari di viaggio fatti con gli amici tra il 1947 e il 1950. Possiamo quindi chiaramente parlare di un romanzo autobiografico nel quale non è nemmeno molto difficile identificare protagonisti e attori: se Sal Paradise, aspirante scrittore in cerca di ispirazione, è l’alter ego di Kerouac, il controverso amico Dean Moriarty, carismatico, istintivo, che nell’avventura trova il senso puro della libertà, certamente si ispira a Neal Cassady. A completare il cast troviamo poi Carlo Marx (Allen Ginsberg) e Old Bull Lee (William S. Burroughs).

In un’America in grande fermento, dove lo scontro generazionale va salendo, Sal, nell’inverno del 1947, conosce Dean Moriarty da poco uscito di prigione e novello sposo, con un concetto assolutamente beat del matrimonio libero, poligamo e “sperimentale”. Insieme a loro bazzicano tra locali e comuni improvvisate un gruppo di giovani pensatori tra cui, il nome è già un programma, Carlo Marx il poeta. La filosofia di vita di Moriarty è contagiante. La sua visione libertaria della società, talvolta fortemente egocentrica, perennemente alla ricerca di esperienze al limite, con ampio abuso di alcol e droghe, influenza il gruppo, ma soprattutto Sal, alimentando nel giovane protagonista una sorta di idolatria nei suoi confronti, nonché la brama di evasione da confini geografici e barriere ideologiche, dalle convenzioni, dalla necessità di sperimentare e allargare i propri orizzonti di bravo ragazzo americano. E il viaggio è la via di fuga, la dimensione errabonda e dell’avventura che lo porterà a percorrere la mitica Route 66, a scivolare da una costa all’altra degli States, a San Francisco e Los Angeles, dove conosce una ragazza messicana di cui si innamora, nelle grandi distese del Midwest, tra i Grandi Laghi, nelle paludi del profondo sud oggi tanto care alla scrittura di Lansdale. Colonna sonora del viaggio per antonomasia è il jazz primigenio, il be bop alla Miles Davis e la voce dai riflessi blues di Billie Holiday.

“In principio il nostro viaggio fu piovigginoso e misterioso. Potevo capire che tutto stava per diventare una gran saga nella nebbia. “Urrà” urlava Dean. “Ecco che andiamo!” E si rannicchiava sul volante e lanciava la macchina come un bolide; era tornato nel suo elemento, ognuno di noi poteva vederlo. Tutti eravamo felici, ci rendevamo conto che stavamo abbandonando dietro di noi la confusione e le sciocchezze e compiendo la nostra unica e nobile funzione nel tempo, andare” (“On the road” di Jack Kerouac).

Non è la meta che importa, è il viaggio. Non è un viaggio, sono tanti viaggi. Che messi insieme rappresentano nella narrazione di Kerouac una rivoluzione culturale capace di catturare l'essenza e l'energia della controcultura beatnik degli anni '50 e influenzare generazioni a venire di artisti, scrittori e musicisti. Nel libro però, quasi tutto dovesse avere una fine per ritrovare una rinascita, Sal, complice una malattia, inizia a distaccarsi da Dean, ne comprende l’egoismo dell’abbandono e umanizza il mito, non lo colpevolizza perché in lui matura la consapevolezza che è il momento di scegliere cosa fare della propria vita, lasciando il compagno di tante avventure alla esistenza errabonda e sbandata che egli si è scelto.

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Credo di aver già detto molto su un libro su cui è stato scritto davvero tutto e mi sarebbe oltremodo difficile, nello spazio che mi sono accordato, elaborare un trattato sulla cultura e sulla generazione beat. Per questo rimando all’ottima presentazione di Fernanda Pivano nell'edizione Oscar Mondadori che fa un racconto e un'analisi accurata del fenomeno. Chiudo con un pettegolezzo, una piccola faziosità sollevata da alcuni, tra questi il critico

Ronald K.L. Collins che, dalle pagine del Washington Post, insinua il dubbio che forse, senza quella fortuita, brillante, convincente recensione a firma di Gilbert Millstein sul New York Times (era il settembre del 1957), “On the road” sarebbe stato un libro qualunque. Millstein, che influenzò certamente altri recensori dopo di lui, ne parlò come di “un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte” e aggiunse definendo il libro come “l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”.

Va da sé che un libro cult generazionale come “Sulla strada” ha da sempre raccolto intorno a sé grandi estimatori che lo hanno esaltato per aver offerto una onesta rappresentazione della gioventù dell'epoca e dei propri ideali, così come di detrattori che lo hanno aspramente criticato per aver enfatizzato uno stile di vita anarchico, senza regole e persino autodistruttivo. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto senza quella fatidica recensione, quello che però possiamo affermare con certezza è che “Sulla strada/On the Road" ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura e la cultura americana, influenzando scrittori e autori come Bob Dylan, Allen Ginsberg e Hunter S. Thompson. Ha anche ispirato molte persone a intraprendere viaggi simili in cerca di avventura e del significato della vita.