Racconti di San Biagio racconti naïve nella città dei pazzi di Adolfo de Luca

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:

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Parlo di un romanzo d’esordio e per di più pubblicato in modalità indie. D’obbligo quindi una premessa: in un Paese, il nostro, dove nell’ultimo anno ad aver letto almeno un libro è poco più del 40% della popolazione a partire dai 6 anni (Istat, rapporto annuale), pubblicare un’opera d’esordio in modo indipendente è frutto, o di un grande coraggio, alimentato da una incontenibile necessità di condividere emozioni, oppure di una altrettanto grande incoscienza, dote quest’ultima che accomuna molti scrittori.

"Racconti di San Biagio e altre narrazioni naïve intorno alla città dei pazzi” di Adolfo de Luca (Album Editori, 2023), s’insinua con la sua piacevole semplicità in mezzo ai due estremi, coraggio ed incoscienza, cercando di guadagnarsi una comfort zone nel flusso della parola scritta, ma con lo stile, come dice nel titolo l’autore, un po’ naïve, ovvero, come ci erudisce il dizionario: ingenuo, schietto, primitivo. E’ una narrazione che fa propria la trasmissione orale del cantastorie, della rievocazione quasi “mitica” del passato che riluce tra le fiamme del caminetto acceso, magari a sbucciare castagne abbrustolite, in famiglia. Tutti insieme.

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Tutto ciò favorisce, rispetto al ritmo dell'insieme, il recupero del racconto di tradizione popolare, a tratti caratterizzato dall’uso del fraseggio dialettale, anche come elemento incisivo di una topografia, quella di Aversa, dove la rosa dei venti ha sostituito i tradizionali punti cardinali con verso “‘mmiezzo a” o in direzione di “ngopp a”. Una carta geografica perduta e ritrovata, riscoperta nelle immagini dei ricordi che affiorano, anzi esondano fluidi dalla penna di chi scrive. Istantanee in bianco e nero da cui de Luca attinge a piene mani, talvolta in modo così ingenuo e spontaneo da spingerci nel territorio della commozione, quando non in quello del rimpianto di un mondo perduto tra le pieghe del tempo, il tempo della città dei pazzi.

“A prossima volta che ti dicono una cosa del genere, devi rispondere che ad Aversa, ‘e pazzi, ce li portano da fuori” (da "Racconti di San Biagio…”)

L’ingenuità di cui accenno e quella di chi è convinto che solo l’inchiostro farà sopravvivere i personaggi della saga familiare che ha accompagnato l’infanzia dell’autore: il padre, zio Arturo, Madonna Sofia, Totonno, l’amico Renato Incertopadre, Zia Clelia, Maradona e una nutrita corte dei miracoli.

“Papà ma perché il vostro mondo era in bianco e nero e il nostro, invece, è tutto colorato?”
“Se commeno!” rispose mio padre “‘O scaccio io come sono andate le cose. Quando diventi grande te le spiego.” (da "Racconti di San Biagio…”)

Il tutto in uno stile certamente ancora da raffinare, ma non per questo meno scorrevole, grazie anche ad un logos raffinato e colto che impreziosisce il testo e crea una piacevole alternanza con il dialetto del volgo che anima i racconti di questo libro. I "Racconti di San Biagio e altre narrazioni naïve intorno alla città dei pazzi” sono perfetti per chi ama la lettura binaria, fatta di acceso e spento, che si presta a pause ed a riprese. Sono assolutamente appetibili per il lettore onnivoro, colui che divora con passione senza distinguo di genere o struttura espositiva. Sono più deboli però per chi ha la necessità di un mordente narrativo che funga da accelerante per accendere le polveri e il ritmo.

Compensa la prosa leggera, così come un sapiente ricorso all’ironia che ben si amalgama all’esigenza forte che l’autore ha di ricordare le proprie radici, di tornare a sentire sotto i suoi piedi la sua terra, i suoni (il calzolaio che batte e le urla dei giochi all’aperto), i profumi (o pane cafone), i sapori (il ragù della domenica da spugnarci il pane o ‘mmarenne co’ pane e muzzarella”). Forse per quel suo vissuto che non è solo la millenaria città di Aversa, luogo fantasmagorico dove comincia la storia della sua famiglia, ma è anche una serenata napoletana, un passaggio in gondola sul Canal Grande, uno spicchio d’Argentina (che emerge quasi alla fine del libro), un pizzico di Verona e quanto basta dei Paesi Bassi. Tutti luoghi un cui ha vissuto e dai quali ha attinto senza remore. Da Novara, la sua attuale dimora, Adolfo de Luca, che in qualche modo si fa forte delle sue esperienze teatrali per dare vita ad un copione dove il parlato assume un ruolo importantissimo, ci trasmette l’emozione del ricordo, della rimembranza. Lo fa mescolando a persone e cose gli episodi della guerra, la generosità delle idee e degli uomini, ma anche la denuncia sociale e del malaffare.

“Vedi ‘a papà, è vero che il tuo mondo è a colori rispetto al mio ma mo’ lo hai capito in mano a chi è andato il pennarello?” (da "Racconti di San Biagio…”)

Senza troppa spettacolarità, ma con la maturità di chi, come dice lui, “ha superato i cinquanta”, egli non mostra alcuna vergogna nel desiderio intimo di non perdere, anzi di far rivivere, respirare e sorridere, chi si è amato e chi ha matericamente plasmato, in modo o nell’altro, ciò che siamo ora. Difficile dire se tutto ciò sia il prodotto di una certa saggezza o di una assoluta necessità di contenere la nostalgia. Ma si sa, nella città dei pazzi tutto è permesso.