L'Esposizione Universale di Luigi Squarzina porta in scena la Roma dell'Italia post bellica e l'EUR42

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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La mia valutazione su questo libro:
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Sto parlando, è bene anticiparlo, di un testo teatrale. Di una commedia in tre atti scritta da Luigi Squarzina tra l’autunno del 1945 e l’estate 1948, uno dei suoi primi lavori fortemente permeato dell’atmosfera di un’Italia uscita dilaniata dal conflitto. “L’esposizione Universale” (Bompiani, Tascabili 2015. Prefazione di Piero Maccarinelli, con un testo di Anna Isabella Squarzina), lo tradisce il titolo, suggerisce al lettore l’ambientazione che vede in primo piano le austere geometrie e l’architettura dell’antica romanità imperiale dell’Esposizione Universale Romana (EUR 42), a far da sfondo ad un’umanità tanto disomogenea, quanto accomunata nel ruolo di sfollata e senza una casa. Una moltitudine di donne e uomini rabberciata, che tira a campare e che occupa, in quel quotidiano sopravvivere di poco o nulla, gli edifici del grande sogno urbanistico fascista, infranto con lo scoppio della guerra.

Il testo, del livornese Squarzina, si è meritato nel 1949 il Premio Gramsci ed è stato rappresentato in Polonia e persino tradotto in Russia. Una lettura tra le più citate è stata fatta da Vittorio Gassman e Giorgio Albertazzi. Confesso di averlo preso tra le mani un paio di volte questo libro, la seconda proprio dopo aver visitato il quartiere dell’EUR a Roma. Nella lettura ho voluto accompagnarlo al testo recitato e ho trovato il risultato particolarmente stimolante (pur con qualche riduzione nella rappresentazione, mi sono avvalso del podcast della messa in scena per la regia di Piero Maccarinelli reso disponibile da Radio Onda Rossa su Internet Archive - Archive.org).

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Tutto accade dunque nella Roma del dopoguerra, un racconto assolutamente nello stile neorealista del periodo, tra i cantieri sospesi, per non dire abbandonati, dell'Expo prevista per il 1942 e cancellata dalla guerra. La capitale è punteggiata dai “campi” degli sfollati. Si coabita in spazi ridotti, privi dei servizi fondamentali, dando vita ad improvvisati quanto improbabili nuclei familiari, di coabitazione obbligata. I profughi dell’epoca, che danno vita a borgate insalubri ed abbandonate a se stesse, sono italiani poveri, senza casa, che vivono di lavori saltuari, le cui intermittenze si legano in parte alla fortuna della giornata, in parte alle scelte politiche con le quali si decide di aprire oppure di chiudere un cantiere.

Li conosciamo sul palcoscenico del quotidiano i nostri interpreti: gente semplice che arriva da ogni parte dell’Italia, che ha passati differenti, educazione e percorsi di vita diversi, ambizioni, illusioni e ideologia che sovente cozzano tra loro, ma sono uniti nel difendere la loro posizione di “inquilini” dell’EUR dalle speculazioni edilizie della ricostruzione, status che li privilegia rispetto agli altri sfollati che invece sono ammassati nei “campi” romani.

Nel 1935 il governatore di Roma, Bottai, propose a Mussolini di candidare la capitale per la futura esposizione universale del 1942, che avrebbe permesso di celebrare i vent'anni della marcia su Roma e proporre il successo del fascismo di fronte a un pubblico internazionale. Il quartiere fu ispirato, secondo l'ideologia del fascismo, all'urbanistica classica romana, apportandovi gli elementi del razionalismo italiano: la struttura prevede un impianto vario ad assi ortogonali ed edifici architettonici maestosi e imponenti, massicci e squadrati, per lo più costruiti con marmo bianco e travertino a ricordare i templi e gli edifici della Roma imperiale.

“L’intera zona è dominata da un pianoro verso il quale il parco sale dolcemente, finché sul punto più alto un mastodontico parallelepipedo di marmo candido apre nel cielo le orbite vuote dei suoi tre ordini di arcate”

L'elemento simbolo del grande progetto architettonico fascista è il Palazzo della Civiltà Italiana, soprannominato "Colosseo Quadrato". L’esposizione universale non ebbe mai luogo a causa del ritardo dei lavori di costruzione e dei preparativi per la partecipazione italiana alla Seconda Guerra Mondiale: il progetto originario non fu quindi mai portato a termine e i lavori vennero interrotti nel 1942. Gli edifici già costruiti funsero da supporto logistico ai militari tedeschi prima, agli Alleati che liberarono Roma poi. I profughi del nostro racconto vi furono allocati dalla municipalità romana nell’immediato dopoguerra. Si chiamano Emma, Elli, Lucia, il professore Curbastro, Pippo, Peppe, il giovane Bartali, Remo, Tamburini il poliziotto. Nelle loro caratterizzazioni si mescolano dialetti, ruoli antagonisti socialmente e sentimentalmente (il sovversivo Remo e il brigadiere Tamburini), calcolatori e speculativi (la spregiudicata Nora e Barzilai il giornalista faccendiere) e persino politici, nella contrapposizione dialettica tra la visione comunista e quella ancora sfacciatamente fascista.

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Tutto gira come deve girare sino a che, in una tensione che l’autore aumenta progressivamente intrecciando passioni, pulsioni, solidarietà, cinismo e avidità, gli abitanti dell’EUR 42 capiscono che saranno costretti ad abbandonare quel poco che hanno, quell’aria e quello spazio che si erano arredati nei gesti quotidiani e che ora svaniranno nel fetore dei campi stipati all'inverosimile di anime smarrite, quasi dimenticate ai margini della società. Non mi hanno infastidito i ricami narrativi che Squarzina inserisce nei tempi che scandiscono questa commedia, anche se si deve fare attenzione a non lasciarsi fuorviare dalle sottotrame che punteggiano il racconto: la giovane ragazzina con un male incurabile, il fotografo che spera in un futuro dietro la macchina da presa, le citazioni accademiche del professore nostalgico del regime, le melodrammatiche tresche sentimentali alimentate da necessità o avidità.

Una pagina di storia spesso dimenticata, di Roma e dell’intero Paese. L’intuizione dell’editore Vettorini, che lo pubblicò per la prima volta nel 1950 a cura di Luciano Lucignani, è stata proverbiale per fotografare una testimonianza lucida dell’Italia post bellica con i suoi gruppi sociali e con le loro dinamiche comportamentali, ma soprattutto per rinnovare lo stimolo a riflettere sul rapporto tra individuo e società e tra quest’ultima e la responsabilità delle scelte che, a tutti i livelli, la coinvolgono e ne generano un flusso di coscienza collettiva.