L'amore adolescente nel Giappone del Sessantotto con "Norwegian Wood" di Haruki Murakami

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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La mia valutazione su questo libro:
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Beata gioventù verrebbe da dire dopo le prime pagine di questo “Norwegian Wood” di Haruki Murakami pubblicato in Giappone nel 1987 ed in Italia nel 1993 da Feltrinelli con il titolo di Tokyo Blues (Einaudi ha poi curato una nuova edizione, con un'introduzione di Giorgio Amitrano, pubblicata con il titolo originale nella sua traduzione inglese. Alcune edizioni riportano entrambi i titoli).

Beata gioventù dunque, se non fosse che, nel procedere con la lettura, quell’immagine sognante, romantica, sfumata ad acquerello su morbida carta di seta, è dilaniata dal ritratto di una generazione, poco più che adolescente, in cui sesso, fumo e rock’n’roll sembrano farla da padroni, aspirando a pieni polmoni dall’aria dei dormitori universitari impregnata di ferormoni e di sudore. Una cortina che fatica però a nascondere un profondo disagio ed una certa fragilità generazionale, evidenti nella scia di depressioni e di suicidi che non lasciano indifferenti. Essi, infatti, ci fanno riflettere su come, nel passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, a qualsiasi latitudine o longitudine ci si trovi, gli opposti si toccano e può essere tanto più difficile coglierne i confini, quanto spostarsi da una parte all’altra. E tutto ciò non si comprenderebbe così bene se, tra le parole di questo libro, non emergessero, così come invece accade, i sentimenti veri e profondi dei personaggi di Murakami, le loro insicurezze, le aspirazioni e quella spasmodica ricerca d’amore, forse non ancora maturo al punto d’esser colto, ma certamente così vasto e profondo da potercisi perdere. Si percepisce, sovente, lo smarrimento giovanile, la difficoltà di decifrare e quindi d’esprimere la propria interiorità: “non posso mai dire quello che voglio dire” e “tutto quello che ottengo sono le parole sbagliate”.

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Per Haruki Murakami, che qui scrive in prima persona, questo è il quinto libro. La sua voce narrante è quella di Toru Watanabe, ma non quella del trentasettenne che su un volo aereo rievoca con il pensiero il suo passato sulle note di “Norwegian Wood” dei Beatles, ma di quel Toru che giace tra i ricordi, del ragazzo, dello studente universitario (diremmo oggi fuori sede) nella grande Tokyo. Siamo in un Giappone tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo, nel pieno della sessantotto del Sol Levante e della contestazione universitaria (poco raccontata in occidente). Tutto incomincia con un grande amore, quasi impossibile, per via che la delicata e fragile Naoko è la fidanzata del suo migliore, forse unico vero amico Kizuki (e anche questo in fondo è un amore) che, morto suicida, lascia un vuoto profondo, ma sarebbe meglio dire una sospensione apneica.

“I once had a girl. Or should I say she once had me” recita la prima strofa di Norwegian Wood dei quattro “scarafaggi” di Liverpool e in fondo quel “Una volta avevo una ragazza. O dovrei dire, lei una volta aveva me" è la sintesi perfetta di questo romanzo che, nella scrittura a tratti onirica, a volte cruda, a sprazzi soffusamente erotica di questo scrittore, in effetti scalda il cuore. Non è però una tisana zuccherina il cui gusto subito ci conquista. Ad ogni sorso si percepiscono sfumature differenti, note più amare, altre più aspre, esplosioni di dolcezza. Serve un minimo di tempo per cogliere il retrogusto che ci appaga. Perché qui parliamo della vita e pure della morte e tra le due c’è un complesso pentagramma di note esistenziali che producono melodie fantastiche, ma talvolta dissonanti.

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Nel raccontare l’esperienza giovanile di Toru Watanabe, di Naoko e Kizuki, ma anche di un’altra anima femminile, Midori, che s’insinua nella mente e nel cuore del giovane universitario, Murakami ci affascina con una narrazione tutta orientale nel rapporto tra anima e stagioni del tempo e della vita, ma travalicandone i confini culturali e mostrandoci un Giappone in cui a girare sono i dischi jazz di Bill Evans e Miles Davis, dove tra le letture di culto spiccano i libri di Thomas Mann e dei contemporanei americani, dove si suona la chitarra ricreando atmosfere da figli dei fiori e canticchiando i Beatles e i Doors, dove pare d’essere in un grande immenso Starbuck con l’odore del caffè che si mescola a quello dei mozziconi di sigaretta, lattine di birra ed alcol.

Ed è forse per questo motivo che il libro è piaciuto ad entrambi gli estremi della rosa dei venti, non solo in quella che è considerata la “superba” traduzione di Jay Rubin (prima edizione inglese autorizzata per la pubblicazione fuori dell'arcipelago nipponico), ma anche in quella più rara di Alfred Birnbaum, a suo tempo data alle stampe per gli studenti giapponesi di inglese. Ma a noi, poco importa in fondo, visto che lo leggiamo nella bella traduzione in italiano di Giorgio Amitrano, professore di Letteratura giapponese presso l'Università di Napoli “Orientale”. Ha tradotto numerosi autori giapponesi tra cui Kawabata Yasunari, Mishima Yukio, Inoue Yasushi, Yoshimoto Banana (va detto per dovere di cronaca che altri libri di Murakami sono tradotti in italiano da Antonietta Pastore).

C’è nel ricordo giovanile di un Watanabe ormai adulto una sorta di nostalgia di quegli anni di giovinezza che oggi paiono lontani anni luce e rappresentano la libertà perduta con la maturità, ma c’è anche l’ostinata volontà di preservare, in quel ricordo che pare tutt’altro che sbiadito dal tempo, un dolore, quello della perdita, che qui è intimamente abbracciato ad un sentimento forte come l’amore che il racconto rinnova con disperata ostinazione. Trovo un po’ retrò la metafora, a più riprese fatta da altri recensori, dell’inverno come simbolo della morte, quella che aleggia intorno a Watanabe e Naoko che passeggiano, uno accanto all’altro, come fantasmi del passato, tra i boschi innevati. "La morte non è l'opposto della vita, ma una parte di essa" è scritto nel libro. Credo quindi che nel fluire delle stagioni, della natura, così come della vita, di cui Murakami ci fa partecipi, luce e buio, vita e morte si scambino di ruolo in un processo ineluttabile e che, proprio per questo, la vita stessa vada assaporata, vissuta. Quella stessa esistenza che a Toru Watanabe offre la possibilità, nella sospensione surreale del suo rapporto quasi platonico con la morte (Naoko/Kizuki), di scegliere di esistere in una vita reale che gli offre l'amore della irrefrenabile Midori Kobayashi. Arrivati all’ultima pagina di Norwegian Wood potremo però solo supporre la strada scelta dal giovane Watanabi, se l'amore o la continuazione nel dolore, quello che invece è certo è il messaggio contenuto tra le pagine: “i morti saranno sempre morti, ma noi dobbiamo continuare a vivere”.

E’ un libro che emoziona? Certamente sì. E lo fa con una serenità che sorprende. Lo fa con una trama che all’apparenza è di una semplicità disarmante, ma che nasconde una complessità emotiva non comune. Non ci sono colpi di scena improvvisi e imprevedibili, non ci sono buoni o cattivi, nemmeno antipatici e tantomeno eroi. Ma c’è la vita che scorre e i giorni che passano, c’è l’attesa, ci sono le pause, il lavoro, il sesso, lo studio. C’è tanta, tantissima anima in un romanzo che qualcuno vuole etichettare “di formazione”, ma che io preferisco definire un prezioso richiamo al valore della vita.