La vita accanto di Mariapia Veladiano. La società della forma e non della sostanza

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.


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La mia valutazione su questo libro:
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“La vita accanto” è una vita in un universo parallelo, una dimensione dell’anima in cui è l’ombra a prevalere sulla luce, un mondo non inclusivo. Vive in questo specchio che non riflette, sorta di vuoto siderale, Rebecca.

C’era una volta una bambina, tanto brutta, ma così brutta che il mondo non solo fingeva di non vederla, ma se proprio non poteva fare a meno di farlo la scansava, ci girava intorno guardando dall’altra parte. Sembra una terribile fiaba. Una narrazione impietosa per la piccola protagonista che poi diventa grande e trova nella musica un parziale riscatto, ma sarebbe meglio dire un rifugio, ai torti subiti. Crudele.

C’è, nel raccontare della Veladiano, un che di emotivo, quasi soprannaturale. Lo si percepisce nelle sfumature, nelle sensazioni della protagonista che, privata della naturale sfera affettiva umana, salvo pochissime eccezioni, manifesta un’amplificazione dei sensi, ciò che in fondo le consente di sopravvivere, di elaborarsi un mondo in cui trovarsi al suo posto. La costruzione è però eccessivamente favolistica. Anche nei personaggi che popolano la storia: la madre con l’esaurimento nervoso post parto, il padre e la virtuosa zia con la sindrome dei gemelli siamesi, la tata dalla lacrima facile, una fata turchina dai capelli bianchi e le dita magiche che finge la demenza per poi rivelarsi al mondo come l’oracolo di Delfi.

Per non peccare di presunzione, a tale eccesso si potrebbe pensare che l’autrice sia tutt’altro che ingenua e che, volutamente, renda tutti goffe comparse, perché non rubino la scena alla morale della mancata accettazione della diversità da parte della nostra società. Difficile, infatti, non essere solidali o sprecar una lacrimuccia per Rebecca, per la rassegnazione al disgusto degli altri, per il vuoto intorno, per l’inumana emarginazione. Resta il fatto che il lettore però fatica, fatica a immaginare tale bruttezza, e l’ordito fatalista si perde in una trama debole, a tratti inverosimile.
L’intenzione pare quella di mettere a nudo il provincialismo più abietto, infettato dal piacere dello scandalo e del pettegolezzo. Tutto però poi si smarrisce in una topografia urbana, quella di Vicenza, col piglio dello stradario che sottrae spazio vitale ad una storia già affetta dalla sindrome del romanzo breve: lo si legge in un weekend, per il numero di battute però!

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Dal romanzo di Mariapia Veladiano è stata tratta una riduzione teatrale di Maura Del Serra,
con l’interpretazione di Monica Menchi, per la regia di Cristina Pezzoli


Qualche colpo di coda ci soccorre nel finale, ma è talmente repentino che i quadri temporali si mescolano come nel gioco delle tre carte. Quasi si piegano a curvare spazio e tempo e la protagonista guadagna o perde anni e taglie ad una velocità incompatibile con ogni teoria evoluzionista.

Intendiamoci, il libro non è come Rebecca. Riesce comunque a saturare l’aria di un certo dolore, di una empatica vicinanza alla sindrome del brutto anatroccolo costretto a diventare un cigno bianco in una società dove la moda lo vorrebbe nero, in una comunità della forma e non più della sostanza.

Premio Calvino 2010 e cinquina Premio Strega 2011: questo è il bello dei libri. Per ogni lettore è un film differente. Può piacere o meno, ma qualcosa resta comunque.