La sposa bambina yemenita si racconta in “Io, Nojoud, dieci anni, divorziata” di Nojoud Ali
Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.
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La mia valutazione su questo libro:
“C’era una volta una terra magica, dalle leggende incredibili quanto le sue case, che sembrano fatte di marzapane e sono ornate di piccole linee sottili simili a tracce di zucchero a velo. Una terra posta all’estremo sud della penisola arabica, lambita dal Mar Rosso e dall’Oceano Indiano. Una terra ricca di una storia millenaria, irta di torri di argilla appollaiate sulle creste di aspre montagne. Una terra in cui l’odore di incenso fluttua lieve agli angoli delle stradine lastricate di pietra.” (da “Io, Nojoud, dieci anni, divorziata”)
Il libro si apre con questa fiabesca visione dello Yemen e quasi ci illude di farci partire per un viaggio meraviglioso nell’Arabia Felix della regina di Saba, in quei paesaggi in cui io, circa trentacinque anni fa, quando ancora metà del paese si chiamava Repubblica Araba dello Yemen del Nord, riconobbi un medioevo incantato sospeso sopra le nubi. Ma è un’illusione che dura poco, anzi pochissimo. Perché questo “Io, Nojoud, dieci anni, divorziata” di Nojoud Ali (Piemme 2011, tradotto da Giovanni Zucca) è un racconto di cronaca vera. E’ la narrazione, nemmeno tanto romanzata, della storia di una bambina di circa 8 anni che il 2 aprile del 2008 si è presentata al tribunale di Sana’a, la capitale dello Yemen, per chiedere il divorzio dal marito a cui era stata sposata (ma sarebbe più giusto dire “ceduta” secondo un’usanza tribale molto diffusa nel paese) ad un uomo di trent’anni che l’ha picchiata e costretta ad avere rapporti sessuali, con il supporto delle stesse donne della sua famiglia.
Il coraggio della giovanissima e analfabeta Nojoud (per le donne la scuola è molto spesso poco più di un miraggio) si è mescolato alla fortuna di essere incappata in un procuratore yemenita progressista e in una avvocatessa (mi si perdoni la coniugazione al femminile ormai fuori moda, ma quì era fondamentale la sottolineatura di genere) della Corte suprema Shatha Muhammed Nasser, che ha assunto la difesa della bimba. All’uscita del tribunale Nojoud ha poi raccontato la sua storia al giornalista Hamed Thabet, 23 anni, dello Yemen Times e la notizia ha presto fatto il giro del mondo, ripresa da centinaia di giornali (anche italiani) e televisioni, scoperchiando, ancora una volta, il tema delle spose bambine, usanza purtroppo ancora diffusa in diversi Stati, sotto la lente molte agenzie ONU e di numerose organizzazioni umanitarie che operano nella regione attraverso programmi di sensibilizzazione e di intervento a favore delle giovani vittime che, come la protagonista di questo libro, trovano il coraggio e la forza di ribellarsi. L’ONU stima 70 mila vittime ogni anno a causa di lesioni o parto precoce dovuto a matrimoni combinati con bambine in nazioni come lo Yemen, ma anche Egitto, Iran, Mali, India. Secondo ActionAid i matrimoni precoci rappresentano un problema gravissimo che affonda le sue radici nella povertà e in antichi retaggi culturali ancora accettati, una tradizione che si tramanda da secoli e che, pur essendo illegale nella quasi totalità degli Stati, è ancora praticata abitualmente tanto che, nel mondo, ogni giorno 33 mila bambine sono costrette a contrarre matrimonio prima del tempo.
Pensando ad un’autrice così giovane, anche se “piccola” è forse l’aggettivo che meglio caratterizza Nojoud bambina, non sfugge che il libro è dato in stampa nel 2009, a solo un anno dagli eventi raccontati, e che dunque la stesura letteraria va accreditata ad una collaborazione che ha di fatto un nome e un cognome: Delphine Minoui, una giornalista franco-iraniana cui la protagonista ha raccontato la sua storia perché fosse messa nero su bianco. La scrittura è fluida, più che semplificata dallo sforzo di Minou di alleggerirla dal taglio giornalistico della cronaca e farne una riduzione diaristica capace di proiettare lo stato d’animo, il punto di vista, le sensazioni di una bambina con meno di dieci anni. E’ come leggere sentendosi piccoli, guardando gli adulti dal basso, ma con una straordinaria efficacia, tanto che ho letto le 162 pagine in una sola serata. C’è tutta Nojoud nel libro, anche se a tratti si sente la presenza della mano e dello stile giornalistico, nei richiami lessicali arabo yemeniti (l’arabo non è uno solo); nei corsivi dell’islam coranico; nel guidare chi legge attraverso la storia dello Yemen sino ai giorni nostri, tornata di drammatica attualità grazie alle milizie Houthi che attaccano il traffico navale nel Mar Rosso; nelle note a margine che richiamano l’attenzione del lettore sulle statistiche drammatiche delle spose bambine e della situazione della donna in un islam radicale e cristallizzato in un medioevo culturale. Tutti elementi che caratterizzano e danno solidità ad un libro di denuncia.
Proseguendo nella lettura, a tratti, si ha l’impressione che gli eventi, così come narrati, siano stati lievemente smussati, scongiurando angoli acuti troppo taglienti, evitando la crudezza estrema, che forse poco si addice all’anima fanciullesca, pur brutalizzata, di Nojoud. La lama non affonda in profondità come in “Bruciata viva” di Suad (di cui ho già scritto), non devasta come nel racconto di “Vendute. L’odissea di due sorelle” di Zana Muhsen, analoga storia di sposalizi combinati nello Yemen tribale. Il motivo di tutto ciò è forse duplice. Il primo consta nella difficoltà per un adulto di tornare ad interpretare attraverso la scrittura pensieri e stati d’animo di un’infanzia tanto lontana per chi scrive, quanto saccheggiata dagli adulti per chi racconta con gli occhi e la sensibilità di bambina. Il secondo è certamente l’arco temporale in cui si svolgono gli eventi, due settimane tra la denuncia e la concessione del divorzio, sentenza accelerata dal coraggio di Nojoud e da un’opinione pubblica internazionale che ha assurto al ruolo di parte civile nel processo. Una quindicina di giorni in cui il mondo di una giovane eroina si capovolge e con lei quello di altre spose bambine che trovano il coraggio, nel suo gesto di disperata ribellione, di chiedere a loro volta il divorzio per liberarsi dal giogo di un’usanza intollerabile. Un breve momento in cui anche le associazioni per la difesa delle donne nello Yemen riprendono voce e chiedono di fare aumentare il limite legale di età per contrarre il matrimonio.
Nel 2008 Nojoud ha ricevuto a New York il premio “Donna dell’anno” dalla rivista “Glamour”, già assegnato anche a Hillary Clinton e Condoleezza Rice. Il libro che solleva il velo nero che oscura i sogni delle spose bambine yemenite è stato tradotto in numerose lingue e, nel 2016, è diventato un film (“La sposa bambina”) diretto da Khadija Al-Salami, la prima donna dello Yemen ad esser diventata regista e produttrice cinematografica. Entrambe provengono dallo Yemen ed hanno un vissuto comune nella tragicità che le accompagna: anche Khadija Al-Salami fu data in sposa a 11 anni e costretta a subire gli stupri del marito, come ha scritto nella sua biografia “Pleure, Ô Reine de Saba ! Histoires de survie et d'intrigues au Yémen”.
“Io, Nojoud, dieci anni, divorziata” non è certamente un libro da annoverare tra quelli di alto peso specifico letterario, ma in quanto opera di denuncia svolge il suo compito con grande diligenza. Ma al suo interno c’è anche un racconto familiare con il suo lessico di regole analfabete tramandato dalla notte dei tempi, ritratto di una, tante, centomila famiglie, come quella di Nojoud, in cui ella tornerà dopo il divorzio. Famiglie stritolate dalla povertà e avvolte nel buio dell'ignoranza alimentata dall’oscurantismo religioso. Un binomio letale, capace di partorire regole sociali inossidabili al tempo che marchiano in modo indelebile i più deboli, le donne in primis, attraverso la più profonda diseguaglianza, instillando quel sentimento talmente in profondità nell’animo femminile, da far divenire naturale il perpetuarsi di tale oppressione di madre in figlia. Una figlia, Nojoud, il cui nome significa “nascosta”, che però questa volta si ribella e ritrova il diritto alla sua piena esistenza con il nome che la sorella avrebbe tanto desiderato per lei: “Nojoum”, che significa “stelle”.