La portalettere di Francesca Giannone nel ricordo di una donna, l'avventura di una vita dove nord e sud s'incontrano

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Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
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La mia valutazione su questo libro:

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Francesca Giannone è considerata una delle nuove voci femminili della narrativa italiana e con il suo romanzo d’esordio “La portalettere” (Nord, 2023) è salita alla ribalta della cronaca letteraria per essersi portata a casa il premio Bancarella ed una sfilza di recensioni che ne elogiano maturità e sapienza (Io Donna), caparbietà e delicatezza (La Repubblica), l’anima forte delle storie marginali e salvate (La Stampa). Tutto ciò nonostante la giovane età dell’autrice che, non a caso, trae ispirazione per il suo racconto familiare (perché è di questo che si tratta in fondo) da un biglietto da visita ritrovato nella scatola dei ricordi della sua bisnonna: “Anna Allavena - Portalettere”.

Ne esce un racconto scritto “a modo”, piacevole nella lettura, ma anche senza troppi scossoni emotivi, fatto salvo quel pathos che è offerto a chi legge da ogni narrazione che si abbandona ai ricordi affettivi e che cerca di recuperarne le immagini, soprattutto quelle mai vissute, ma solo immaginate attraverso racconti e fotografie ritrovate. Brava la Giannone nel ridare forma alla scenografia del Salento degli anni Trenta (il romanzo ripercorre l’Italia che dal 1931 passa attraverso la guerra e rinasce nei primi dei Cinquanta, con un epilogo da cambio sipario nel 1961), ma soprattutto nel ricreare le atmosfere dell’epoca e del contesto, riempiendo la tela del racconto di pennellate materiche, a dare sostanza e vita alle anguste o sgarrupate topografie di Lizzanello. Molto brava, va detto, nel raccontare, attraverso le vicende dei protagonisti, in vent’anni di pura saga familiare, il progressivo cambio di passo, di mentalità, della comune morale, così come il divario della percezione dell’essere donna tra nord e sud e della penisola.

Ben percepibile quindi la contrapposizione tra tradizioni, cultura e pensiero di una Liguria, di cui la protagonista Anna Allavena è figlia, e quelle di Carlo, suo marito, cresciuto invece nelle soleggiate terre del sud che lo abbracciano dopo anni d’assenza come un figliol prodigo, partito ragazzo e tornato uomo con tutta la famiglia al seguito (con loro anche il figlio Roberto). Una scena immortalata già nei primi fotogrammi in cui la macchina da presa ferma in panoramica su Lizzanello, un paesino di qualche migliaio di anime, per poi stringere il campo sulla corriera che si ferma nella piazza principale e fare un primo piano di Carlo, il figlio del sud, e di Anna “bella come una statua greca” dallo sguardo spaesato che non trova più i riferimenti familiari e s’appresta a vestire il ruolo della «forestiera», quella venuta dal nord, quella che porta i pantaloni, quella diversa, che non va in chiesa, quella in odore di comunismo e che, a dispetto di una millenaria tradizione che ben distingue i ranghi tra i sessi, dice sempre quello che pensa.

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Da quella inquadratura sulla piazza del paese, la pellicola inizia a scorrere e la storia prende avvio. I fotogrammi andranno via via a delineare tutti i protagonisti delle vicende familiari di cui la Giannone vuole farci partecipi, con una colonna sonora che è come una sinfonia nel mantenere in vita l’amore, talvolta conflittuale, a tratti sospeso dal disappunto e dai fantasmi del passato che prendono vita, ma mai assente tra Anna e il marito Carlo, anche quando Antonio, il fratello maggiore e devoto, colui che lo sosterrà nel suo percorso imprenditoriale, sociale e politico, ma soprattutto umano, s’innamorerà in modo viscerale di Anna, sin dal primo istante in cui l’ha scorta mentre scendeva dalla corriera, quasi presagendo in lei uno spirito indomabile, fiero, non addomesticabile alle leggi non scritte che fanno da recinto alle donne del sud. Una relazione sottotraccia, ma sarebbe meglio dire sottopelle, per quella sua strisciante latenza che non si è mai spinta oltre un gesto istintivo, ma si è conservata, sommessamente contenuta, in una “non relazione” a cui l’autrice annoda un poetico e colto fraseggio d’oltralpe ad un sapiente intreccio di citazioni letterarie: ci sono Flaubert con “Madame Bovary” e “L’educazione sentimentale”, le sorelle Brontë di “Jane Eyre” e “Cime tempestose”, Jane Austen con il suo “Orgoglio e pregiudizio”, Dostoevskij e Gogol. Sono loro i custodi di una tanto inconfessabile, quanto impraticabile passione.

Le aspirazioni di Anna, l’insofferenza per un ruolo che non riconosce, quale donna colta in profumo di femminismo e di rivalsa sociale, trovano concretezza nel 1935, in un gesto di sfida, di chiara provocazione, ma anche di aspirazione suffragista, ad anticipare quasi il racconto del referendum per la repubblica del dopoguerra: si presenta a un concorso delle Poste, lo vince e diventa così la prima portalettere di Lizzanello. La forestiera, quella che raccoglie gli sguardi infastiditi delle donne e suscita risate di scherno negli uomini seduti al tavolino del bar mentre la osservano bere il suo caffè corretto, si trasforma nel filo invisibile, ma nemmeno così tanto invisibile, che unisce le anime del paese. Quelle di cui raccoglie le confidenze (tutte forse tranne quelle che legano Carlo ad un passato che ora gli presenta il conto e che chiede pure la mancia), quelle cui offrirà vicinanza e conforto consegnando, a piedi prima, in bicicletta poi, le lettere dei figli al fronte. Anime talvolta smarrite cui offrirà una rinascita e una nuova vita. Amanti, figli, padri, mariti, come il suo forse, che in quella donna in divisa e nella sua bolgetta, nel suo instancabile pedalare da una casa all’altra osserveranno, in vent’anni, un mondo che cambia passando attraverso una guerra mondiale e le istanze femministe di cui Anna si fa anticipatrice tirando i fili del destino delle donne che incontra e sostenendo con forza le loro scelte, i loro diritti, a viso aperto, senza compromessi. Con pari dignità, sia quando queste anime femminili sono orfane, abusate, ragazze madri, ex prostitute, così come quando a chiedere aiuto è la nipote prediletta.

Siamo però ben lontani dal concept che, nel 1887, contrassegnava la lunga novella “Maestra”, pubblicata da Clarice Tartufari. Racconto in cui la giovane e sprovveduta Ginevra Gabrielli, guarda caso, figlia di un portalettere e di una stiratrice, grazie ai sacrifici immensi dei genitori, dopo essersi diplomata diverrà maestra, posizione di poche donne alla fine dell’Ottocento in Italia, tangibile opportunità di emancipazione sociale e economica, osteggiata da pregiudizi e bassi istinti della società dell’epoca. In “La portalettere” di Francesca Giannone, l’impegno sociale e di emancipazione come donna e per le donne di Anna è certamente ben delineato, ma pare emergere dai flutti delle vicende sentimentali e familiari solo a tratti. Non è il puzzle, ma solo una singola tessera, come lo sono i tanti coprotagonisti del romanzo e le loro storie: la cognata Agata; la nipote Lorenza, piccola farfalla vitale e affettuosa la cui muta le riserverà una trasformazione in falena perduta nelle tenebre di un amore travagliato e controcorrente, e poi ancora Roberto, Daniele, donna Carmela, di cui nulla dico per non svelare troppo del libro.  

L’Anna dell’impegno sociale, il cui nirvana resta l’antica e sapiente arte di fare il pesto nel mortaio, gestualità che incarna la saggezza e l’amore della nonna e della madre, è spesso sommersa, in modo particolare nella parte relativa al dopoguerra, dall’intreccio emotivo della nuova generazione che avanza, intenta a ricomporre le storture orchestrate dai padri e a generare, inconsapevolmente o no, nuove mareggiate.

“Le mani di Anna, così lisce e curate, si muovevano sciolte e sicure; erano le mani sapienti di chi aveva praticato il rito del pesto fin da piccina. Non l’aveva mai vista così di buonumore. Pensò che il pesto avrebbe dovuto farlo ogni santo giorno, se riusciva a farla sorridere in quel modo”. (dal romanzo “La portalettere” di Francesca Giannone).

Mareggiate che diventano tempeste tropicali, che spazzano via il giardino dei melograni e il suo spazio protetto dal dolore. Uragani d’emozioni che implodono dopo molti anni da quell’arrivo sulla piazza, come in un copione in cui tutto va come deve andare, dove nulla è rimasto fuori posto nella cassetta dei ricordi di quella nonna, di nome Anna, portalettere di mestiere nel piccolo borgo di Lizzanello di cui sino ad oggi era rimasto solo un biglietto da visita.