La foresta. Un pulp western di frontiera dalla penna magistrale di Joe R. Lansdale

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
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Va posto in premessa: Lansdale ha certamente prodotto di meglio nella sua prolifica carriera letteraria. Tuttavia questo “La foresta” lo riconferma per quello scrittore diretto, che non cerca troppi sofismi per mandarti a quel paese o che prende scorciatoie linguistiche per offrirsi ad una gergalità tanto diretta, quanto efficace. Egli quando racconta afferma, riducendo in tal modo lo spazio alle intuizioni. soprattutto in quei contesti in cui la parola per centrare il bersaglio deve essere caratterizzata da una certa ruvidità. Detto ciò, tra le pagine di questo racconto quella parola graffia come carta vetrata nelle mutande.

Le oltre trecento pagine, stampate per i tipi della Einaudi che le confeziona nella sua collana Stile Libero, scivolano, anzi sarebbe meglio dire galoppano, visto che lo strano assortimento degli interpreti è quasi sempre in sella tra le polverose ed insidiose strade di un Texas ancora a mezza via tra il mito del selvaggio west e la futura civiltà delle macchine, era di transizione tra l’Ottocento ed il secolo successivo, tra saloon, bettole, bordelli e cacciatori di taglie che non vedono sempre di buon occhio le prime vetture scese in strada a far concorrenza ai più affidabili cavalli. Un tempo di passaggio tra duelli all’ultimo sangue, vestigia indiane e prove tecniche di teleselezione, con i primi telefoni che arrivano a far da corredo agli uffici di sceriffi sperduti in puzzolenti villaggi arsi dal sole dove in rozze prigioni si smaltiscono sbornie o si aspettano sommarie esecuzioni.

A farla breve c’è la storia di un povero ragazzo di campagna, Jack, cui il vaiolo porta via i genitori e, come se tal sventura non bastasse, ci si mette pure la pallottola di un bastardo senza legge e privo di coscienza a far transitare il caro vecchio nonno nelle grandi praterie del cielo. Il colpo di grazia poi lo offre un evento meteo degno del cambiamento climatico, tale da buttar tutto all’aria e separare quel giovane villico, educato nel timore di un Dio che pare essersi assentato per la pausa pranzo, dalla cara dolce sorellina Lula che, già in odore di feromoni, è rapita dai cattivi con l’intento certo di non condurla in un educandato, ma di farne, per così dire, trastullo da uomini duri e sporchi, visto che da quelle parti lavarsi non pare essere una priorità.

Mi si perdoni l’esemplificazione della trama, ma quel che voglio non è certo fare spoiler e nemmeno offrire spazio a chiare anticipazioni sulle avventure di una compagine decisamente insolita e sgangherata che l’ingenuo e disperato Jack mette in piedi per cercare la giovane sorella rapita e per pareggiare i conti con il branco di cattivi che gli scrupoli li han mangiati con lo stufato di fagioli. Ed eccoli dunque i cacciatori di taglie border line che Lansdale anima nel libro: un nano ambientalista dalla mira infallibile che ama leggere e citare i classici, un becchino nero di taglia XXL con una letale doppietta a pallettoni ed un’innata passione per l’alcool, una prostituta che cerca una via d’uscita dal bordello in cui lavora e forse anche il vero amore, uno sceriffo sfigurato dal fuoco, dagli indiani e dalla vita e, per finire, anche un maiale che pare frutto però di una mutazione genetica, mezza via tra un cane da riporto ed uno squalo di barriera feroce ed affamato. E tutti si muovono in quella oscura e misteriosa foresta che da il titolo al romanzo, più metaforica che reale, sorta di selva oscura in cui i gironi dei dannati affondano nelle viscere della terra ancor più di quanto faccia la miniera di TauTona in Sudafrica e nelle cui profondità l’animo umano si smarrisce.

Se dovessi definirlo quale genere opterei per un pulp western. Avete capito bene! Sarebbe d'accordo con me anche Quentin Tarantino, artefice di quello straordinario “Django unchained” che strizza l’occhio ad ambientazioni e personaggi de “La foresta”, con tanto di sangue che scorre copioso, di immagini truculente, interiora e cervelli sparpagliati su pareti e pavimenti, di una schiettezza e sessualità raccapriccianti, di un certo sobbollire di violenza.


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È questa una vera storia di frontiera dove la legge la dettano le pallottole che fendono l’aria e non tanto le buone maniere. A chi mette all’indice il libro con l’accusa di troppa di brutalità, dovremmo forse porre la domanda su quanto essi sanno dell’epica del selvaggio west, che non era certo il racconto televisivo de “Quella casa nella prateria”, ma si fondava su livelli di conflittualità, possesso e confronto inimmaginabili. Difficile, e meno male che Lansdale lo evita con cura, edulcorare la bestialità della razza umana, che poi è quella che ci fa decidere da che parte stare nella lettura del romanzo. Chi invece lamenta una storia un po’ troppo stereotipata sull’immagine “old America, visi pallidi e Buffalo Bill” dimentica forse che Lansdale ama quel tipo di ambientazione di cui ha già dato prova magistrale offrendosi come rappresentante della migliore tradizione western e replicando pure con “Cronache dal selvaggio West. Hap e Leonard, le origini” uscito qualche anno dopo questo “La foresta”.

A stemperare l’atmosfera da arancia meccanica in stile old wilde west c'è comunque sempre quella straordinaria capacità di questo scrittore di caricaturizzare i suoi personaggi, anche nelle situazioni più drammatiche, offrendo loro un’inaspettata via di fuga e a chi legge l’opportunità di immaginarli, se pur per un attimo, quali interpreti di una graphic novel in quello stile Coccobill che sa farci sorridere anche quando li troviamo un po’ immorali o impegnati in sanguinosi duelli, come quello che volge sul finale in cui tutti sparano a tutti, ma per colpire qualcuno servirebbe forse una visita oculistica collettiva.

Se proprio si volesse trovare il pelo dell’uovo, si potrebbe allora dire che il ritmo iniziale si inabissa un poco nella parte centrale del racconto dove l’autore prende il suo tempo nella caratterizzazione dei personaggi, obbligandosi per questo a piani sequenza un poco lunghi. Ma poi il battito accelera, si fa incalzante, avvincente, sempre pregno di quella ironia che chi scrive usa per bilanciare le situazioni più drammatiche. Se poi quell’uovo, in cui abbiam trovato il pelo, lo volessimo fare sodo, potremmo aggiungere che lascia un poco perplessi un finale in stile commedia hollywoodiana, che s’intuisce già prima delle ultimissime pagine, e che trovo eccessivamente zuccherino, ma che resta figlio di una letteratura a stelle e strisce dalla glicemia alta, che adora il lieto fine romantico e ben si sposa con quel buonismo tutto americano che noi del Vecchio Continente non sempre apprezziamo e, da navigati e bigotti colonizzatori senza scrupoli quali siamo stati, avremmo preferito sangue, sudore, sesso e polvere.

E inoltre: