Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut una vera bibbia per ogni amante del cinema

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Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

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La mia valutazione su questo libro:
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Per parlare di questo straordinario libro di Cinema, una sorta di Bibbia per gli appassionati (la “c” non è maiuscola casualmente), è necessario contestualizzare protagonisti e periodo. O meglio intervistatore ed intervistato, perché è di questo che stiamo parlando, di un’appassionata intervista di cinquecento domande messe nero su bianco, srotolando qualcosa come cinquanta ore di registrazioni raccolte, come dice l’autore, dalle nove del mattino alle sei del pomeriggio. Questo è “Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut (Il Saggiatore 2014, traduzione Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto).

Siamo nel 1962 e Alfred Hitchcock (l’intervistato), londinese classe 1899, è già considerato un Maestro con quasi cinquanta film nel suo carniere, alcuni dei quali già universalmente noti come capolavori della suspance: “Il pensionante” (The Lodger: A Story of the London Fog, 1927), “Rebecca, la prima moglie” (Rebecca, 1940), “Notorious, l’amante perduta” (Notorious, 1946), “Nodo alla gola” (Rope, 1948) e il celeberrimo “Psyco” del 1960”, cui sarebbe poi seguito nel 1963 l’altrettanto incredibile “Gli uccelli” (The birds). François Truffaut (l’intervistatore), già ben conosciuto d’oltralpe per la sua attività di critico cinematografico per la rivista “Cahiers du Cinéma”, che nel 1962 ha trent’anni, ha già al suo attivo la regia di ben tre pellicole: “I quattrocento colpi” (Les quatre-cent coups, 1959) considerato un esordio strepitoso sul grande schermo, “Tirate sul pianista” (Tirez sur le pianiste, 1960) e il fresco di montaggio “Jules e Jim” del 1961.

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Truffaut, che considera il regista britannico come un punto di riferimento della cinematografia d’autore, è piuttosto infastidito dalla leggerezza con cui la stampa americana tende ad intervistare ed a ritrarre quello che lui considera un genio, ancor più se si pensa che lo stesso Hitchcock è naturalizzato americano: egli, infatti, che sbarca ad Hollywood negli anni Quaranta, non se ne andrà più via dagli States.

“Ricordi che, per definizione, i critici non hanno immaginazione e questo è normale. Un critico troppo dotato di immaginazione non potrebbe più essere obiettivo. È proprio questa mancanza di immaginazione che li porta a preferire le opere più spoglie, più nude, perché danno loro la sensazione di poter quasi esserne gli autori”.

Ecco allora l’idea del regista francese di realizzarla lui un’intervista al mito. Una lunga chiacchierata sul cinema, sulla sua carriera, ma soprattutto sui suoi film, tutti suoi film (trovo per cui inutile citare qui la filmografia), per meglio comprenderli e conoscerne genesi, nascita, costruzione, ma soprattutto retroscena. Per farlo gli scrive una lettera in cui esterna una tale ammirazione che l’autore de “L’uomo che sapeva troppo” non può che accettare d’incontrarlo. E ciò si concretizza in una settimana di appuntamenti nell’estate del 1962 negli studios californiani della Universal in cui i due uomini di cinema, anticipando celebri docuserie in cui i registi di successo si intervistano a vicenda, penetrano a fondo e con straordinaria chiarezza e lucidità, nel lavoro di Hitchcock.

Lo fanno senza dimenticare nulla, partendo dal racconto di un Hitchcock che, al suo esordio nel mondo del cinema nel 1920, si occupava di creare le illustrazioni dei titoli nel film muti. Ed è proprio dal cinema muto che inizia questo viaggio che, con un’accurata fedeltà cronologica, guarda all’interno dei fotogrammi di ogni pellicola “hitchcockiana”, svelando le idee, la tecnica, il montaggio, gli effetti utilizzati, ma soprattutto offrendo a chi legge un’immagine del grande regista che va ben oltre quella di un illuminato direttore cinematografico, riscoprendo in lui un esperto della fotografia e delle ripresa, un arguto scenografo, ma anche un costumista, uno sceneggiatore, persino un tecnico delle luci. Tutto ciò per comunicare che il successo di ogni suo film era il condensato di un insieme di competenze che, legate tra di loro, sono il cinema stesso. Quelle conoscenze tecniche capaci di esaltare ingegno e creatività. Un aspetto non colto dalla critica di quell’epoca, anzi deriso, che vedeva in quella “manualità da maestranza” una sorta di declassamento del sacro ruolo del regista.

“Quando è stato inventato, il cinema è servito innanzitutto a registrare la vita; era allora un’estensione della fotografia. È diventato un’arte quando ha smesso di essere documentario”.

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La prima edizione di quello che potremmo definire un vero manuale di cinema, nel senso quasi accademico del termine (vi si affrontano anche elementi sulle tecniche di ripresa, così come sul montaggio), fu pubblicata dall’editore francese Robert Laffont nel 1967. Soltanto dopo la morte di Alfred Hitchcock, François Truffaut riprese tra le mani il manoscritto, nel 1983, limitandosi però ad arricchirlo di una interessante prefazione e di un nuovo capitolo dedicato agli ultimi anni della carriera del grande regista anglo americano. Lo stile è quello schematico di un’intervista, a domanda risposta, anche se la rigidità di un tale flusso di scrittura è equilibrata dal fatto che la lettura può essere ripresa dopo un’interruzione in qualsiasi momento e senza difficoltà. Non ci si lasci però intimorire dal livello “specialistico” su cui verte la lunga intervista: la modalità con cui Truffaut si pone a fronte del Maestro si offre a risposte fluide, ben leggibili, sovente cariche di quella ironia tipica di Alfred Hitchcock.

Come ho già avuto modo di scrivere, l’appassionato trova in questo libro tecnica, stile, psicologia e retroscena di ogni film in cui il Maestro cercava sempre e con ostinazione di coniugare emozione ed attenzione. Ed in questo va dato merito all’autore di questo volume, che grazie alla sua competenza, pone l’accento su interessanti riflessioni sul linguaggio cinematografico. Vi trova però spazio anche il racconto dell’uomo Hitchcock, di una vita suddivisa tra i periodi inglese e americano, si rispolverano ricordi ed emozioni, successi inaspettati, delusioni impreviste e curiosità, tante curiosità. Tra queste i suoi cameo oppure l’invenzione di quello che egli battezzò “MacGuffin”, un espediente narrativo che, pur catalizzando l’attenzione di chi guarda, poco o nulla c'entra con la trama, una sorta di clamoroso depistaggio per lo spettatore di cui Hitchcock amava fare sfoggio. Ne da prova magistrale, ad esempio, in “Psyco” dove il film inizia con il furto di denaro da parte di una ragazza che, nella sua fuga dalla città, lo nasconde in una busta che sarà ripetutamente ed insistentemente inquadrata, dando l’impressione di essere la chiave per risolvere un mistero, salvo poi che la trama prenderà una piega del tutto diversa e la busta uscirà di scena.

“Il cinema secondo Hitchcock” è una grande confessione, sincera, fluente. Oltre a ciò c’è però molto altro: Charlie Chaplin, Fritz Lang, Buster Keaton, David W. Griffith. E scusate se è poco!