Arafat di Barry Rubin e Judith Colp Rubin ritratto controverso del più grande rivoluzionario di Palestina
Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.
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La mia valutazione su questo libro:
Nel momento in cui riprendo tra le mani questo saggio, uscito nel 2003, è in corso uno dei momenti più drammatici del conflitto tra Hamas e Israele che vede l’esercito dello stato ebraico radere al suolo la striscia di Gaza, con migliaia di vittime, ostaggi israeliani ancora in mano ai miliziani palestinesi e missili che, come comete di morte, imprimono scie luminose sul cielo di entrambi i fronti della guerra. Lo rileggo perché, a distanza di tanti anni da quel 1964 in cui nasceva l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina OLP (che diverrà solo dieci anni dopo la legittima "rappresentante del popolo palestinese"), qualcuno ne ha dimenticato la storia, quasi pensando che Hamas e Al-Fatha siano spuntate dal nulla.
Lo sfoglio nuovamente perché dopo tanti anni non è cambiato quasi nulla, anche dopo gli accordi di Oslo del 1993, che prevedevano l'autogoverno per i palestinesi della Cisgiordania e della striscia di Gaza entro cinque anni. Nulla, benché Arafat, insieme con Shimon Peres e Yitzhak Rabin, per quell’accordo fu insignito del premio Nobel per la pace.
Un paradosso che oggi si riflette in quanto Barry Rubin e Judith Colp Rubin scrissero in questo “Arafat. L’uomo che non volle la pace” (Mondadori, 2005. Traduzione di Renato Pera): “non è mai esistita una reale alternativa ad Arafat, ma proprio questa sua insostituibilità, e la sua ostinazione nel non rinunciare all’idea della vittoria totale, hanno fatto di lui il principale ostacolo al processo di pace”. Forse è per questa affermazione, apparsa nel libro, che nell’edizione italiana di questa bibliografia, la prima ad essere pubblicata dopo la sua misteriosa, discussa e controversa morte, si è voluto sottolineare con un'accezione fortemente critica la figura del personaggio Arafat, facendo seguire al suo nome la frase “L’uomo che non volle la pace”, quasi a voler selezionare a priori il pubblico dei lettori possibili. Non è invece spiegabile perché Mondadori, rispetto all’originale “Yasir Arafat: A Political Biography” della Oxford University Press, abbia pensato di togliere dall’indice la datazione relativa ai momenti storici raccontati, privando il primo sguardo di un punto di riferimento temporale piuttosto utile per l’eventuale lettura o rilettura di eventi relativi ad un preciso momento storico del movimento di liberazione palestinese. Le date sono comunque riportate accanto al titolo di ogni capitolo del volume.
Tanto per togliersi il dente dirò subito due cose: nonostante le sue quasi 450 pagine la lettura scorre relativamente bene, non presenta troppi artifici tipici della geopolitica accademica, nonostante il curriculum degli autori. Barry Rubin, già direttore del Global Research in International Affairs, è stato redattore della Middle East Review of International Affairs e professore presso l’Interdisciplinary Center di Herzliya in Israele; la moglie Judith Colp Rubin è nota come inviata e corrispondente di numerose e importanti testate.
In seconda istanza, invece, appare chiaro nel procedere con la lettura, che la figura di Arafat è qui riproposta, non tanto come la rappresentazione iconica del patriota rivoluzionario simbolo della causa palestinese, ma come quella di un uomo politico che, intrappolato nelle logiche di una politica araba incentrata sulla lotta armata, non ha saputo approfittare delle numerose occasioni, talvolta da lui stesso create, per dare una vera duratura svolta alla causa palestinese. Una psicologia complessa quella di Arafat che, secondo gli autori, ha ottenuto nel suo ruolo ben pochi risultati a fronte delle opportunità che la storia gli ha presentato a più riprese, in loop tra aperture concilianti al dialogo e dichiarazioni durissime di guerra ad Israele e all’Occidente. L’architettura dell’impianto narrativo (note incluse, che in un saggio hanno un loro peso specifico) talvolta sembra quasi oscurare, con una critica costante, la duratura attenzione mediatica e politica internazionale con cui Arafat ha saputo tenere vivo il dramma del popolo palestinese. Ne consegue quindi una deriva decisamente filo occidentale nel tribunale della storia. E qui la “difesa” sembra quasi ignorare che il raiss arabo abbia avuto, nel corso della sua leadership, più di una buona ragione per fare ricorso all’ambiguità, giocare con l’indecisione e rifiutare le proposte di pace americane ed israeliane.
Detto questo, il volume offre al lettore un ritratto biografico “cronologicamente” completo di Arafat che parte dalla sua giovinezza al Cairo, passa dalle prime esperienze di guerriglia, dalla presa di coscienza che la filosofia della lotta armata potesse essere l’unica risposta all’oppressione israeliana del popolo di Palestina, sino alla elaborazione di una personale dottrina di terrorismo internazionale, capace di tenere alto il livello di attenzione e di tensione, ma soprattutto di rendere la sua leadership nel mondo arabo una voce capace di interloquire con i grandi leader mondiali. Mette a confronto, con una contrapposizione talvolta insidiosa per una visione che, come ho già detto, pecca di equilibrio, lo statista arabo e il mediatore di pace con l’Arafat del terrorismo che per anni ha seminato morte con la lotta armata, con gli attentati, con i dirottamenti. Il libro insegue Arafat nei suoi spostamenti: Kuwait, Siria, Giordania, Libano, Tunisia sino al rientro in Palestina e alla sua morte in un ospedale parigino nel 2004.
Con questo saggio l’idea che Barry Rubin e Judith Colp Rubin cercano di instillare è che probabilmente i palestinesi avrebbero potuto stare meglio oggi, come cittadini di Israele, se non avessero abbracciato le idee e la politica di Arafat, se avessero scelto un diverso leader, rinunciato all’Intifada. E’ un pensiero che, alla luce di quanto sta accadendo oggi, francamente non mi convince affatto. Ci sarebbe invece da domandarsi cosa sarebbe accaduto se qualcuno non lo avesse tolto di mezzo. Pur condannando gli atti cruenti che l’OLP ha messo in atto nel corso della sua storia (al pari di quelli commessi oggi da Hamas), mi sono persuaso, leggendo questo libro, che senza la costante pressione che Arafat ha esercitato sull’Occidente, così propenso a dimenticare ogni cosa fuori dal proprio campo visivo, dopo più di mezzo secolo dalla nascita dello stato di Israele, nessuno oggi ricorderebbe più il colore della bandiera palestinese.
Va da sé che leggere questa biografia ci consente di fare qualche personale riflessione, prendendo atto che, giuste o sbagliate che siano state le scelte di Yasir Arafat, quest’uomo ha vissuto mezzo secolo nei panni del rivoluzionario, quarant’anni vestendo il ruolo di leader del suo movimento, trenta come capo di un popolo e sette ai vertici di un governo. E tutto ciò qualcosa ha certamente contato e pesato negli equilibri dell’intero mondo mediorientale, e non solo, ed il fatto che il sospetto, ormai quasi realtà per i più, che egli sia stato avvelenato, è forse un indicatore che la sua politica a qualche risultato sarebbe forse approdata, ma che quel risultato sarebbe stato probabilmente sgradito a più di una persona.