La masseria delle allodole di Antonia Arslan. Nel racconto familiare l'orrore del genocidio armeno

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.


Legenda: * non mi è piaciuto / ** sufficiente / *** piaciuto discretamente / **** mi è piaciuto / ***** mi è piaciuto moltissimo

La mia valutazione su questo libro:
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Ci sono pagine di storia che paiono talmente disumane che l’uomo stesso, sbagliando, cerca di seppellirle, di cancellarle dalla vista e dalla memoria. Occhio non vede, cuore non duole. Ma l’umanità stessa, quando i ricordi affiorano, quando qualcuno rammenta ciò che è stato, perché magari lo ha vissuto o sentito raccontare, si trova sempre a fare i conti con se stessa. Con il peso profondo della colpa per chi, in nome di una etnia o di una religione, ha violato la storia. Con il rimorso di aver distolto lo sguardo per coloro che, nel folle gioco della politica o dei propri meri interessi, hanno finto di non sapere.
Nel giorno della memoria ci affanniamo affinché, scomparendo gli ultimi testimoni diretti, non si perda la consapevolezza collettiva del più grande crimine perpetuato dall’umanità: l’Olocausto. Lo facciamo perché ciò non abbia e ripetersi, inconsapevoli talvolta che lo sterminio sistematico ed organizzato di un popolo aveva già avuto un prologo, di eguale ferocia e crudeltà, di immense dimensioni e molti anni prima, nel genocidio degli armeni, nel 1915, tra i monti della bella Anatolia ed i deserti aridi ed assolati dell’Impero Ottomano.

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La copertina del libro e una foto di profughi armeni (foto riportata in gran parte dei siti relativi al genocidio)

“Nella grande piana ai piedi dei primi contrafforti del Tauro, confluiscono stremati i resti delle carovane. Di quanti, di quante biancheggiano ormai le ossa sui sentieri, quanti gonfi cadaveri sono trasportati dall’Eufrate; quanti bambini, quante ragazze sono scomparsi. Il gruppetto dei superstiti della piccola città si attenda penosamente sotto due alberi scarni, mentre un falco alto gira nel cielo limpidissimo”.

“La masseria delle allodole” non è solo il racconto di un fatto tragico, non è anche la testimonianza vivida di uno sterminio e della cancellazione di un popolo, della sua cultura, della sua lingua, della sua stessa esistenza nel libro del creato. Il libro è il risveglio della coscienza sopita di tutti noi, è uno sguardo nell’abisso che ci avverte che superata una data soglia, sarà l’abisso che scruterà dentro di noi. Antonia Arslan è una professoressa italiana di origini armene. In questo libro ella scrive del genocidio del suo popolo, dando voce alla sua identità armena. Lo fa con uno stile tutto suo, raccontando la storia della sua famiglia, a sua volta raccontatele dal nonno Yerwant quando era ancora una bambina.

"Sono loro, i miei padri e madri, che emergendo da un pozzo profondo mi hanno narrato la loro storia e io mi sono seduta, un giorno di maggio, ad ascoltare e a scrivere. Ed è stato come intessere un tappeto. Zio Sempad è solo una leggenda per noi: ma una leggenda su cui abbiamo tutti pianto. Era l'unico fratello del nonno, il minore. Amava la sua tranquilla città, la sua provincia sonnolenta, le chiacchiere al caffè con gli amici."

C’è un filo che unisce, in questo romanzo verità, l’Italia con quella terra ai piedi del monte Ararat di cui la Arslan ci parla. Nel nostro paese, infatti, vive uno dei componenti della grande famiglia degli Arslanian, partito da una piccola cittadina dell’Anatolia in cerca di fortuna, a soli tredici anni. E la dea bendata lo assiste perché egli studia, si laurea brillantemente, si sposa con altrettanto successo. Dopo tantissimi anni Yerwant, ora un chirurgo molto stimato, decide di tornare alla terra natia che gli è rimasta nel cuore.
“Questa non è uva vera, è pallida, sa di poco; nel mio paese lontano fiorivano i grappoli immensi, e latte e miele avevano il sapore dell’arca d’Oriente…”

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Regione di Aleppo, donna armena inginocchiata vicino al corpo del figlio (tra il 1915 e il 1919) © Library of Congress, American Memory. Mappa del genocidio stilata nel 1965 dal Centro Studi Armeni


Fervono i preparativi per il viaggio da Padova all’antica Costantinopoli e poi su, sino ai monti e le piane anatoliche, per rivedere e riabbracciare fratelli, sorelle, nipoti conosciuti solo attraverso le lettere. Ad attenderlo c’è il caro fratello Sempad, il farmacista, che vuole per questo rientro un cerimoniale fastoso, perché è bene chiarire che gli Arslanian, come molti degli armeni presenti nell’impero ottomano in quell’epoca, sono persone agiate, colte, ben inserite in un tessuto sociale ed economico. Per il fratello che torna egli pensa a restaurare l’antica masseria di famiglia, la Masseria delle Allodole appunto. Fa giungere al paese arredi di stile, vetrate riccamente decorate e fa scavare persino una profondo avvallamento, tra i prati, poco distante dalla masseria, perché il suo sogno, riabbracciando il fratello, e di giocare con lui nel campo da tennis che collocherà in quella fossa.

“La delusione è una promessa infranta. Un viaggio mai intrapreso, un amore mancato, il futuro negato di un popolo ‘così docilmente sciocco’”.

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Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915. - WikiCommons. L'autrice accanto alla copertina del libro

Purtroppo è il 1915: l’Italia entra in guerra, Yerwant non potrà più partire e ricevere notizie dal fratello e dei nipoti diventerà impossibile. I loro corpi straziati da un sadico gioco di morte giacciono in quella fossa scavata per il campo da tennis. Il genocidio armeno, il Metz Yeghern, ha avuto inizio. Ogni uomo, ogni bambino, ogni neonato maschio sarà trucidato, molti torturati o barbaramente assassinati. Per le donne, risparmiate alla morte, inizierà la penosa deportazione verso Aleppo e il deserto ove le attende la morte, non prima di aver patito violenze, sevizie, incursioni curde e cercato di sopravvivere rovistando tra lo sterco in cerca di semi. Le polverose strade dell’Anatolia che fanno rotta verso il deserto si riempiono di corpi che cedono agli stenti patiti e si ammucchiano come colline di morte. In tutto ciò Antonia Arslan ci mostra una flebile luce di speranza verso la salvezza per chi, della sua famiglia, ancora non è morto, verso quello zio Yerwant rimasto in Italia senza poter far nulla per aiutare i propri cari.
“È uno stupore ovattato, denso. Cento gridi di angoscia vengono sigillati su labbra ridenti, cento pensieri di morte si levano, fluttuano incerti, si uniscono a intessere una buia danza. I bambini si riempiono le tasche di dolci, e si nascondono. L'odore acido della paura si diffonde come un miasma”.

La narrazione inizia con un lessico familiare che s’addentra in feste popolari e religiose, in tradizioni secolari ed in una selva genealogica linguistica di nomi che ci pare impossibile memorizzare, tanto è la loro estraneità alla nostra anagrafe abituale: Sempad, Shushanig, Yerwant, Hamparzum, Aznir, Veron. Un quadro che obbliga chi legge a rallentare il ritmo, talvolta a perdersi tra i rivoli dei ricordi, tra i visi, i gesti, i rituali. Ciò che ci pare come un sovraffollamento di immagini e di nomi è però necessario e lo si comprende procedendo nel racconto. L’autrice ha assolutamente bisogno di farci immergere in una cultura, in un ambiente familiare come tanti per sorprenderci poi, nella seconda parte del racconto, con l’orrore, la repulsione, la cruda e lacerante realtà di un omicidio di massa studiato a tavolino, senza pietà alcuna, sino all’epilogo di una delle pagine più tragiche del Novecento. Solo in tal modo ella riesce a darci misura di ciò che un genocidio comporta: la scomparsa di una cultura nella sua complessità. Alternando il virtuosismo narrativo alla forza della verità storica ci fa comprendere l’enormità di quegli eventi insabbiati da un sincopato negazionismo turco sovente tollerato dagli interessi occidentali.

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Locandina e fotogramma del film del 2007 diretto dai fratelli Taviani

Dal libro anche un film dei fratelli Taviani uscito in sala nel 2007. L’Italia è tra le 29 nazioni che hanno formalmente riconosciuto il genocidio degli armeni, lo sterminio di un milione e mezzo di persone, pianificato tra il 1915 e 1917 sotto l’Impero Ottomano ai danni della minoranza cristiana. Un fatto che ha profondamente segnato, e lo mostra il più recente conflitto nel Nagorno-Karabakh, le relazioni tra le comunità turche ed armene.
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