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Kabul di Ettore Mo: la radiografia di una ferita che non smette di sanguinare

2025-11-04 09:37

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Kabul di Ettore Mo: la radiografia di una ferita che non smette di sanguinare

Kabul è un archivio emotivo, una mappa di voci e rovine, dove la cronaca diventa gesto di resistenza e la scrittura si fa pietas.

AvvertenzaValutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:

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Avvertenza

Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.


⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:

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Da giornalista e corrispondente navigato, Ettore Mo non ha certo l’ambizione di spiegarci il mondo. Fare cronaca aiuta a essere asciutti, a condensare, cogliere l’essenza delle cose e, come nel caso dell’Afghanistan, restituirne le ferite. In Kabul c’è tutto questo, e dopo una ventina di pagine l’intuizione di chi legge si fa certezza. Non è un saggio al cento per cento, non è un reportage nel senso lato del termine, non è nemmeno un diario. È tutto questo insieme, ma anche qualcosa di più: un gesto di presenza, una forma di resistenza, una cartografia umana tracciata con parole che sono fotografie, anzi radiografie che passano oltre l’apparenza, indagano, circoscrivono la displasia sociale.


Ettore Mo non è un inviato qualunque. È un testimone attento. Il suo Afghanistan non è quello delle breaking news, né quello delle analisi geopolitiche. È un Afghanistan vissuto, attraversato, intervistato. Lo dice lui stesso: «Come tutte le storie d’amore, la mia storia d’amore con l’Afghanistan ha avuto i suoi alti e bassi, ma si è trattato di un rapporto vissuto sempre ad alta tensione e nutrito di sentimenti profondi» (in prefazione). Il libro raccoglie oltre vent’anni di viaggi, ritorni, fughe, immersioni. Mo arriva a Kabul nel 1979, quando la guerriglia dei mujaheddin contro il regime filo-sovietico è agli inizi. Sei mesi dopo, l’URSS invade. Da quel momento, l’Afghanistan entra nel cono d’ombra della storia, e Mo lo segue. Lo segue tra le montagne, tra i villaggi, tra le rovine. Lo segue anche quando il mondo lo dimentica.


Kabul è un archivio vivente. Non una cronaca, ma una sedimentazione. E questo lo rende davvero interessante anche quando non è letto a caldo, ma col senno di poi. Ogni pagina è una tessera, ogni voce un frammento, ogni paesaggio una storia. Mo non cerca l’effetto, non rincorre la retorica. Il suo stile è asciutto, da narratore che non vuole esondare, ma proprio per questo potente. Non c’è enfasi, c’è pietas. Non c’è analisi sistematica, ma una mappa emotiva composta di frammenti. Kabul diventa il centro di un mondo che crolla, e Mo lo racconta senza gridare. La struttura del libro è solida, ma non rigida come ci si potrebbe aspettare da un saggio sulla guerra. I capitoli seguono un ordine temporale e tematico, ma non rinunciano alla densità emotiva. Mo ascolta e restituisce. Il suo sguardo è quello di chi non vuole convincere, ma capire. E nel farlo, convince.


Nel libro incontriamo capi della guerriglia islamica, combattenti talebani, medici, donne velate, bambini mutilati. Ma anche stranieri, cooperanti, giornalisti. Ogni voce è incastonata come una tessera di un mosaico che non pretende certo di essere completo, ma che riesce a essere significativo. Non c’è gerarchia tra le testimonianze: tutte valgono, tutte pesano, tutte sanguinano. La scrittura è sobria, ma non per questo meno efficace. C’è indignazione, c’è compassione, c’è umanità. Ma tutto è filtrato da una scrittura che non cerca l’effetto, ma la verità. E questa verità, spesso, è scomoda. Il dolore, da buon corrispondente, l’autore preferisce mostrarlo. E in questo, il libro è l’Afghanistan stesso: ferito, resistente, molto spesso indecifrabile per chi osserva dalla cultura occidentale.


Se si cerca la coerenza formale si resterà delusi. A rinnegarla c’è il balzo, il graffio, il frammento. A spezzare la narrazione lineare e trasformarla in una costellazione di episodi, di incontri, di sguardi. Il lettore non è guidato, è immerso. E a volte, rischia di perdersi. Ma è proprio in questa perdita che si trova qualcosa: una verità che non è concetto, ma esperienza.


Kabul esce nel 2001, ma raccoglie materiali che precedono l’attacco alle Torri Gemelle. Questo lo rende prezioso: è una testimonianza pre-epocale, che mostra l’Afghanistan prima che diventasse il centro della “guerra al terrore”. E proprio per questo, aiuta a capire cosa c’era prima, cosa è stato ignorato, cosa è stato strumentalizzato. Il libro non anticipa gli eventi, ma li prepara. Non li analizza, ma li rende visibili. Disegna una cartografia della resistenza e della dignità. Il libro è anche una riflessione sull’Occidente. Sulle sue omissioni, sulle sue ipocrisie, sulle sue cecità. Mo non lo dice apertamente, ma a buon intenditor, poche parole. «Non mi faccio soverchie illusioni sul suo futuro» – scrive Mo prima di congedarsi da chi legge – «per quanto ne so gli afgani trovano sempre dei motivi per rimettersi a litigare e imbracciare il kalashnikov. È nel loro DNA». Essere perfetti in modo esaustivo quando si parla di Afghanistan è impossibile. Ma questo è un libro onesto. E che serve.