AvvertenzaValutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro: Figlia del temporale di Valentina D’Urbano è uno di quei romanzi che non si leggono: si attraversano. Come un sentiero impervio tra le montagne del nord Albania, dove la protagonista Hira viene sradicata dalla sua infanzia urbana per essere trapiantata in un mondo che odora di legna bruciata, silenzi ostili e leggi non scritte. Un mondo che non fa sconti, ma che sa scolpire anime, con solchi tanto profondi quanto precisi, che hanno la capacità di sagomare sentimenti pieni di linfa vitale.La D’Urbano, con la consueta grazia ruvida che la contraddistingue, ci consegna una storia che è insieme cronaca e mito, documento e fiaba oscura, come la selva che ammanta le montagne in cui si dipana. Hira, orfana a tredici anni, è accolta dagli zii in un villaggio governato dal Kanun, il codice arcaico che detta i ruoli, i doveri e le punizioni. Una tavola dei comandamenti cui nessuno può sottrarsi. Qui, per sfuggire a un matrimonio combinato, ella sceglie la via più estrema: diventare una burrnesh, una vergine giurata. Ma, intendiamoci, non si tratta di diventare una vestale, ma di una metamorfosi sociale: rinunciare alla propria femminilità per ottenere la libertà. Ma che libertà è, quella che ti impone di amputarti una parte del tuo essere?La trasformazione di Hira in Mael non è una semplice scelta identitaria: è una mutilazione rituale, una ribellione che si piega pur di non spezzarsi. Eppure, sotto la pelle di Mael, Hira pulsa ancora. Desidera, sogna, si strugge. E questo conflitto interno è il cuore pulsante del romanzo: la tensione tra ciò che si è e ciò che si deve essere per sopravvivere.Accanto a lei, il cugino Astrit, muto e selvatico, è una presenza magnetica. La loro relazione, fatta di gesti, sguardi e silenzi, è una delle più potenti del libro. I silenzi sono come apnee infinite, i gesti come mani sentono sotto i vestiti, sulla pelle. Non c’è bisogno di parole quando l’intimità si costruisce su ferite condivise. Astrit non parla, ma dice tutto. E Hira lo ascolta come si ascolta il vento prima della tempesta.Valentina D’Urbano è potente, non si limita a raccontare una storia: la incide. Con una scrittura che sa essere lirica e brutale al contempo. Ci porta dentro una realtà storica poco conosciuta, quella delle burrneshat, e lo fa senza mai cadere nel peccato della didascalia. Il suo è un romanzo politico, nel senso più alto del termine: denuncia, interroga, mette in crisi, ci fa rigirare nel letto in preda all'ansia di chi insegue i pensieri e non si da pace. Ma è anche un romanzo d’amore, dove l’amore non è mai semplice, mai lineare, mai concesso. La premeditazione è un reato.Il risultato è un libro che lascia il segno. Non perché urla, ma perché sussurra verità scomode. E quando lo si chiude, si ha la sensazione di aver vissuto un’altra vita. Di aver camminato nei panni di Hira, di aver sentito il peso del suo nome, il freddo delle montagne, il calore di un abbraccio che non può essere chiamato tale.Un romanzo che è figlio del temporale, sì. Ma anche della luce che arriva dopo.


Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.
⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente
La mia valutazione su questo libro:
Figlia del temporale di Valentina D’Urbano è uno di quei romanzi che non si leggono: si attraversano. Come un sentiero impervio tra le montagne del nord Albania, dove la protagonista Hira viene sradicata dalla sua infanzia urbana per essere trapiantata in un mondo che odora di legna bruciata, silenzi ostili e leggi non scritte. Un mondo che non fa sconti, ma che sa scolpire anime, con solchi tanto profondi quanto precisi, che hanno la capacità di sagomare sentimenti pieni di linfa vitale.La D’Urbano, con la consueta grazia ruvida che la contraddistingue, ci consegna una storia che è insieme cronaca e mito, documento e fiaba oscura, come la selva che ammanta le montagne in cui si dipana. Hira, orfana a tredici anni, è accolta dagli zii in un villaggio governato dal Kanun, il codice arcaico che detta i ruoli, i doveri e le punizioni. Una tavola dei comandamenti cui nessuno può sottrarsi. Qui, per sfuggire a un matrimonio combinato, ella sceglie la via più estrema: diventare una burrnesh, una vergine giurata. Ma, intendiamoci, non si tratta di diventare una vestale, ma di una metamorfosi sociale: rinunciare alla propria femminilità per ottenere la libertà. Ma che libertà è, quella che ti impone di amputarti una parte del tuo essere?La trasformazione di Hira in Mael non è una semplice scelta identitaria: è una mutilazione rituale, una ribellione che si piega pur di non spezzarsi. Eppure, sotto la pelle di Mael, Hira pulsa ancora. Desidera, sogna, si strugge. E questo conflitto interno è il cuore pulsante del romanzo: la tensione tra ciò che si è e ciò che si deve essere per sopravvivere.Accanto a lei, il cugino Astrit, muto e selvatico, è una presenza magnetica. La loro relazione, fatta di gesti, sguardi e silenzi, è una delle più potenti del libro. I silenzi sono come apnee infinite, i gesti come mani sentono sotto i vestiti, sulla pelle. Non c’è bisogno di parole quando l’intimità si costruisce su ferite condivise. Astrit non parla, ma dice tutto. E Hira lo ascolta come si ascolta il vento prima della tempesta.Valentina D’Urbano è potente, non si limita a raccontare una storia: la incide. Con una scrittura che sa essere lirica e brutale al contempo. Ci porta dentro una realtà storica poco conosciuta, quella delle burrneshat, e lo fa senza mai cadere nel peccato della didascalia. Il suo è un romanzo politico, nel senso più alto del termine: denuncia, interroga, mette in crisi, ci fa rigirare nel letto in preda all'ansia di chi insegue i pensieri e non si da pace. Ma è anche un romanzo d’amore, dove l’amore non è mai semplice, mai lineare, mai concesso. La premeditazione è un reato.Il risultato è un libro che lascia il segno. Non perché urla, ma perché sussurra verità scomode. E quando lo si chiude, si ha la sensazione di aver vissuto un’altra vita. Di aver camminato nei panni di Hira, di aver sentito il peso del suo nome, il freddo delle montagne, il calore di un abbraccio che non può essere chiamato tale.Un romanzo che è figlio del temporale, sì. Ma anche della luce che arriva dopo.


⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:
Figlia del temporale di Valentina D’Urbano è uno di quei romanzi che non si leggono: si attraversano. Come un sentiero impervio tra le montagne del nord Albania, dove la protagonista Hira viene sradicata dalla sua infanzia urbana per essere trapiantata in un mondo che odora di legna bruciata, silenzi ostili e leggi non scritte. Un mondo che non fa sconti, ma che sa scolpire anime, con solchi tanto profondi quanto precisi, che hanno la capacità di sagomare sentimenti pieni di linfa vitale.
La D’Urbano, con la consueta grazia ruvida che la contraddistingue, ci consegna una storia che è insieme cronaca e mito, documento e fiaba oscura, come la selva che ammanta le montagne in cui si dipana. Hira, orfana a tredici anni, è accolta dagli zii in un villaggio governato dal Kanun, il codice arcaico che detta i ruoli, i doveri e le punizioni. Una tavola dei comandamenti cui nessuno può sottrarsi. Qui, per sfuggire a un matrimonio combinato, ella sceglie la via più estrema: diventare una burrnesh, una vergine giurata. Ma, intendiamoci, non si tratta di diventare una vestale, ma di una metamorfosi sociale: rinunciare alla propria femminilità per ottenere la libertà. Ma che libertà è, quella che ti impone di amputarti una parte del tuo essere?
La trasformazione di Hira in Mael non è una semplice scelta identitaria: è una mutilazione rituale, una ribellione che si piega pur di non spezzarsi. Eppure, sotto la pelle di Mael, Hira pulsa ancora. Desidera, sogna, si strugge. E questo conflitto interno è il cuore pulsante del romanzo: la tensione tra ciò che si è e ciò che si deve essere per sopravvivere.
Accanto a lei, il cugino Astrit, muto e selvatico, è una presenza magnetica. La loro relazione, fatta di gesti, sguardi e silenzi, è una delle più potenti del libro. I silenzi sono come apnee infinite, i gesti come mani sentono sotto i vestiti, sulla pelle. Non c’è bisogno di parole quando l’intimità si costruisce su ferite condivise. Astrit non parla, ma dice tutto. E Hira lo ascolta come si ascolta il vento prima della tempesta.
Valentina D’Urbano è potente, non si limita a raccontare una storia: la incide. Con una scrittura che sa essere lirica e brutale al contempo. Ci porta dentro una realtà storica poco conosciuta, quella delle burrneshat, e lo fa senza mai cadere nel peccato della didascalia. Il suo è un romanzo politico, nel senso più alto del termine: denuncia, interroga, mette in crisi, ci fa rigirare nel letto in preda all'ansia di chi insegue i pensieri e non si da pace. Ma è anche un romanzo d’amore, dove l’amore non è mai semplice, mai lineare, mai concesso. La premeditazione è un reato.
Il risultato è un libro che lascia il segno. Non perché urla, ma perché sussurra verità scomode. E quando lo si chiude, si ha la sensazione di aver vissuto un’altra vita. Di aver camminato nei panni di Hira, di aver sentito il peso del suo nome, il freddo delle montagne, il calore di un abbraccio che non può essere chiamato tale.
Un romanzo che è figlio del temporale, sì. Ma anche della luce che arriva dopo.




