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Afghanistan anno zero di Giulietto Chiesa e Vauro Senesi: un forte un atto di presenza, non una mappa.

2025-10-29 08:13

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Afghanistan anno zero di Giulietto Chiesa e Vauro Senesi: un forte un atto di presenza, non una mappa.

Il libro non cerca la coerenza formale: la rifiuta. Preferisce il balzo, il graffio, il frammento. E in questo, somiglia all’Afghanistan stesso.

⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro: Gino Strada, chirurgo in terre di conflitti e fondatore di Emergency, se n’è andato il 13 agosto 2021 dopo un’intera vita trascorsa ad assistere le vittime di guerra e a lottare per la fine di ogni guerra. È sua l’introduzione di questo libro ed è forse per questo motivo, per la presenza di Emergency e del suo fondatore come orizzonte etico, che ho deciso di leggerlo, non essendo l’attualità, in questo 2025 in cui ne scrivo, il suo tratto distintivo. Il libro, infatti, è andato in stampa poco prima dei drammatici fatti delle Torri Gemelle in quel fatidico 11 settembre 2001.“Afghanistan. C’è un aggettivo che, da ormai più di dieci anni, accompagna inesorabilmente il nome di questo Paese. L’aggettivo è: dimenticato.” Così si apre il libro, e così si apre anche questa recensione, che non vuole essere né neutra né indulgente. Vuole essere, come il libro stesso, una forma di testimonianza. Ma anche di verifica. Questo libro è come un gesto: tra reportage e urlo grafico. Nasce da un viaggio compiuto da Giulietto Chiesa e Vauro Senesi nell’Afghanistan dei Talebani, pochi mesi prima dell’attacco all’America. È un gesto editoriale che si pone a metà tra il reportage e il pamphlet, tra la cronaca e la denuncia. La struttura è ibrida: testi narrativi, interviste, vignette, fotografie. Il tono è viscerale, spesso indignato, a tratti lirico. Di sicuro non sempre calibrato, ma nessuno credo si aspetta di leggere un romanzo e lo si comprende sin dall’inizio.Il merito principale, per chi lo legge “col senno di poi”, è quello di aver rotto il silenzio: raccontare un Afghanistan che non è ancora diventato il teatro della “guerra al terrore”, ma che già vive in uno stato di sospensione, di attesa, di mutilazione. Il risultato è un mosaico emotivo, più che analitico. Non è un saggio, ma lo diventa suo malgrado. Fatto di frammenti, non di capitoli. Frammenti di esperienza, appunti di viaggio, dialoghi, scorci. Questo rende la lettura intensa, a tratti discontinua. Il lettore non è guidato, è immerso. E a volte, rischia di perdere l’orientamento. Anche se in quel correre da una parte all’altra si avverte la forza di quell’italianità operosa e inquieta che contraddistingue il nostro impegno civile fuori dai confini del Bel Paese.Ci sta in quella geografia primordiale la cui genesi Strada spiega in poche righe che non citarla sarebbe quasi un reato di omissione etica: “Racconta un’antica storia afghana che quando Dio creò la Terra decise anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l’Italia, più su la Germania, per poi infilarci l’Austria e la Svizzera, o qualcosa di simile. Una volta iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po’ i confini, limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del pianeta. Alla fine si trovò con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba di scarto insomma. Allora prese il tutto e lo gettò nel buco che, sul mappamondo, era rimasto vuoto tra il Medio Oriente, l’Asia centrale e il subcontinente indiano. E disse: ‘Questo è l’Afghanistan!’” (dall’introduzione di Gino Strada in Afghanistan Anno Zero)Il viaggio degli autori avviene nel 2000, quando l’Afghanistan è già un “non luogo”, ma non ancora il centro del mondo. Questo rende il libro prezioso: è una testimonianza premonitrice, che mostra ciò che il mondo non voleva vedere. E ci aiuta a capire molto di quello che già era accaduto e di quanto sarebbe successo. Certamente la scelta di non costruire una narrazione lineare è coerente con l’intento testimoniale, ma penalizza la profondità geopolitica. Non c’è una vera analisi del contesto talebano, né una mappa delle forze in campo. Ci sono volti, ferite, parole. Ma manca la cornice che fa loro da perimetro, anche se, in fondo, la sofferenza che trasuda ci basta e avanza. Tanto che le interviste, spesso brevi o spezzate, hanno comunque una grande forza documentaria. Il dolore non è spiegato, è mostrato. E questo, nel bene e nel male, è il tratto distintivo del libro. Il libro non cerca la coerenza formale: la rifiuta. Preferisce il balzo, il graffio, il frammento. E in questo, somiglia all’Afghanistan stesso.O sarebbe forse dire assomiglia ad un “diario”. E il diario, per quanto sincero, talvolta non basta. Ma questa è chiaramente un’opinione: umana. Come umani sono i sentimenti raccontati e provati da chi legge: tra la pietas e l’invettiva, tra la compassione, ma anche la rabbia, tra la denuncia e lo scoramento.Come tutti i libri che navigano tra la cronaca e la storia, spetta a chi legge — in base al tempo in cui si legge — il compito di tracciare la propria mappa spazio-temporale, per decifrare, per evitare che la retorica del dolore si traduca in comprensione. Questo perché questo libro è un atto di presenza, non una mappa. È un libro che va letto, ma anche va integrato. Con altri studi, con altri sguardi.

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.


⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
Gino Strada, chirurgo in terre di conflitti e fondatore di Emergency, se n’è andato il 13 agosto 2021 dopo un’intera vita trascorsa ad assistere le vittime di guerra e a lottare per la fine di ogni guerra. È sua l’introduzione di questo libro ed è forse per questo motivo, per la presenza di Emergency e del suo fondatore come orizzonte etico, che ho deciso di leggerlo, non essendo l’attualità, in questo 2025 in cui ne scrivo, il suo tratto distintivo. Il libro, infatti, è andato in stampa poco prima dei drammatici fatti delle Torri Gemelle in quel fatidico 11 settembre 2001.“Afghanistan. C’è un aggettivo che, da ormai più di dieci anni, accompagna inesorabilmente il nome di questo Paese. L’aggettivo è: dimenticato.” Così si apre il libro, e così si apre anche questa recensione, che non vuole essere né neutra né indulgente. Vuole essere, come il libro stesso, una forma di testimonianza. Ma anche di verifica. Questo libro è come un gesto: tra reportage e urlo grafico. Nasce da un viaggio compiuto da Giulietto Chiesa e Vauro Senesi nell’Afghanistan dei Talebani, pochi mesi prima dell’attacco all’America. È un gesto editoriale che si pone a metà tra il reportage e il pamphlet, tra la cronaca e la denuncia. La struttura è ibrida: testi narrativi, interviste, vignette, fotografie. Il tono è viscerale, spesso indignato, a tratti lirico. Di sicuro non sempre calibrato, ma nessuno credo si aspetta di leggere un romanzo e lo si comprende sin dall’inizio.Il merito principale, per chi lo legge “col senno di poi”, è quello di aver rotto il silenzio: raccontare un Afghanistan che non è ancora diventato il teatro della “guerra al terrore”, ma che già vive in uno stato di sospensione, di attesa, di mutilazione. Il risultato è un mosaico emotivo, più che analitico. Non è un saggio, ma lo diventa suo malgrado. Fatto di frammenti, non di capitoli. Frammenti di esperienza, appunti di viaggio, dialoghi, scorci. Questo rende la lettura intensa, a tratti discontinua. Il lettore non è guidato, è immerso. E a volte, rischia di perdere l’orientamento. Anche se in quel correre da una parte all’altra si avverte la forza di quell’italianità operosa e inquieta che contraddistingue il nostro impegno civile fuori dai confini del Bel Paese.Ci sta in quella geografia primordiale la cui genesi Strada spiega in poche righe che non citarla sarebbe quasi un reato di omissione etica: “Racconta un’antica storia afghana che quando Dio creò la Terra decise anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l’Italia, più su la Germania, per poi infilarci l’Austria e la Svizzera, o qualcosa di simile. Una volta iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po’ i confini, limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del pianeta. Alla fine si trovò con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba di scarto insomma. Allora prese il tutto e lo gettò nel buco che, sul mappamondo, era rimasto vuoto tra il Medio Oriente, l’Asia centrale e il subcontinente indiano. E disse: ‘Questo è l’Afghanistan!’” (dall’introduzione di Gino Strada in Afghanistan Anno Zero)Il viaggio degli autori avviene nel 2000, quando l’Afghanistan è già un “non luogo”, ma non ancora il centro del mondo. Questo rende il libro prezioso: è una testimonianza premonitrice, che mostra ciò che il mondo non voleva vedere. E ci aiuta a capire molto di quello che già era accaduto e di quanto sarebbe successo. Certamente la scelta di non costruire una narrazione lineare è coerente con l’intento testimoniale, ma penalizza la profondità geopolitica. Non c’è una vera analisi del contesto talebano, né una mappa delle forze in campo. Ci sono volti, ferite, parole. Ma manca la cornice che fa loro da perimetro, anche se, in fondo, la sofferenza che trasuda ci basta e avanza. Tanto che le interviste, spesso brevi o spezzate, hanno comunque una grande forza documentaria. Il dolore non è spiegato, è mostrato. E questo, nel bene e nel male, è il tratto distintivo del libro. Il libro non cerca la coerenza formale: la rifiuta. Preferisce il balzo, il graffio, il frammento. E in questo, somiglia all’Afghanistan stesso.O sarebbe forse dire assomiglia ad un “diario”. E il diario, per quanto sincero, talvolta non basta. Ma questa è chiaramente un’opinione: umana. Come umani sono i sentimenti raccontati e provati da chi legge: tra la pietas e l’invettiva, tra la compassione, ma anche la rabbia, tra la denuncia e lo scoramento.Come tutti i libri che navigano tra la cronaca e la storia, spetta a chi legge — in base al tempo in cui si legge — il compito di tracciare la propria mappa spazio-temporale, per decifrare, per evitare che la retorica del dolore si traduca in comprensione. Questo perché questo libro è un atto di presenza, non una mappa. È un libro che va letto, ma anche va integrato. Con altri studi, con altri sguardi.

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⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:


Gino Strada, chirurgo in terre di conflitti e fondatore di Emergency, se n’è andato il 13 agosto 2021 dopo un’intera vita trascorsa ad assistere le vittime di guerra e a lottare per la fine di ogni guerra. È sua l’introduzione di questo libro ed è forse per questo motivo, per la presenza di Emergency e del suo fondatore come orizzonte etico, che ho deciso di leggerlo, non essendo l’attualità, in questo 2025 in cui ne scrivo, il suo tratto distintivo. Il libro, infatti, è andato in stampa poco prima dei drammatici fatti delle Torri Gemelle in quel fatidico 11 settembre 2001.

“Afghanistan. C’è un aggettivo che, da ormai più di dieci anni, accompagna inesorabilmente il nome di questo Paese. L’aggettivo è: dimenticato.” Così si apre il libro, e così si apre anche questa recensione, che non vuole essere né neutra né indulgente. Vuole essere, come il libro stesso, una forma di testimonianza. Ma anche di verifica. Questo libro è come un gesto: tra reportage e urlo grafico. Nasce da un viaggio compiuto da Giulietto Chiesa e Vauro Senesi nell’Afghanistan dei Talebani, pochi mesi prima dell’attacco all’America. È un gesto editoriale che si pone a metà tra il reportage e il pamphlet, tra la cronaca e la denuncia. La struttura è ibrida: testi narrativi, interviste, vignette, fotografie. Il tono è viscerale, spesso indignato, a tratti lirico. Di sicuro non sempre calibrato, ma nessuno credo si aspetta di leggere un romanzo e lo si comprende sin dall’inizio.

Il merito principale, per chi lo legge “col senno di poi”, è quello di aver rotto il silenzio: raccontare un Afghanistan che non è ancora diventato il teatro della “guerra al terrore”, ma che già vive in uno stato di sospensione, di attesa, di mutilazione. Il risultato è un mosaico emotivo, più che analitico. Non è un saggio, ma lo diventa suo malgrado. Fatto di frammenti, non di capitoli. Frammenti di esperienza, appunti di viaggio, dialoghi, scorci. Questo rende la lettura intensa, a tratti discontinua. Il lettore non è guidato, è immerso. E a volte, rischia di perdere l’orientamento. Anche se in quel correre da una parte all’altra si avverte la forza di quell’italianità operosa e inquieta che contraddistingue il nostro impegno civile fuori dai confini del Bel Paese.

Ci sta in quella geografia primordiale la cui genesi Strada spiega in poche righe che non citarla sarebbe quasi un reato di omissione etica: “Racconta un’antica storia afghana che quando Dio creò la Terra decise anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l’Italia, più su la Germania, per poi infilarci l’Austria e la Svizzera, o qualcosa di simile. Una volta iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po’ i confini, limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del pianeta. Alla fine si trovò con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba di scarto insomma. Allora prese il tutto e lo gettò nel buco che, sul mappamondo, era rimasto vuoto tra il Medio Oriente, l’Asia centrale e il subcontinente indiano. E disse: ‘Questo è l’Afghanistan!’” (dall’introduzione di Gino Strada in Afghanistan Anno Zero)

Il viaggio degli autori avviene nel 2000, quando l’Afghanistan è già un “non luogo”, ma non ancora il centro del mondo. Questo rende il libro prezioso: è una testimonianza premonitrice, che mostra ciò che il mondo non voleva vedere. E ci aiuta a capire molto di quello che già era accaduto e di quanto sarebbe successo. Certamente la scelta di non costruire una narrazione lineare è coerente con l’intento testimoniale, ma penalizza la profondità geopolitica. Non c’è una vera analisi del contesto talebano, né una mappa delle forze in campo. Ci sono volti, ferite, parole. Ma manca la cornice che fa loro da perimetro, anche se, in fondo, la sofferenza che trasuda ci basta e avanza. Tanto che le interviste, spesso brevi o spezzate, hanno comunque una grande forza documentaria. Il dolore non è spiegato, è mostrato. E questo, nel bene e nel male, è il tratto distintivo del libro. Il libro non cerca la coerenza formale: la rifiuta. Preferisce il balzo, il graffio, il frammento. E in questo, somiglia all’Afghanistan stesso.

O sarebbe forse dire assomiglia ad un “diario”. E il diario, per quanto sincero, talvolta non basta. Ma questa è chiaramente un’opinione: umana. Come umani sono i sentimenti raccontati e provati da chi legge: tra la pietas e l’invettiva, tra la compassione, ma anche la rabbia, tra la denuncia e lo scoramento.

Come tutti i libri che navigano tra la cronaca e la storia, spetta a chi legge — in base al tempo in cui si legge — il compito di tracciare la propria mappa spazio-temporale, per decifrare, per evitare che la retorica del dolore si traduca in comprensione. Questo perché questo libro è un atto di presenza, non una mappa. È un libro che va letto, ma anche va integrato. Con altri studi, con altri sguardi.