Cecità di José Saramago. Basterà ad abituarci a tenere gli occhi aperti e a smettere di far finta di non vedere?

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.

⭐ Sufficiente - ⭐ ⭐ Più che discreto - ⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo - ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
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Non amo particolarmente le recensioni che replicano una sinossi o quei racconti nel racconto che, prima che tu l’abbia letto, già ti svelano trama e finale. A parte qualche necessario riferimento scenico, cercherò quindi di evitare di risceneggiare questo romanzo di Saramago che, tra le altre cose, è pure Nobel per la Letteratura (la L è volutamente maiuscola).

In un mondo senza coordinate geografiche precise, in una società (la nostra senza dubbio) che non vede o sovente finge di non vedere ingiustizie, diseguaglianze, prepotenze ed un cinismo individuale in crescita esponenziale, in una società che è quindi cieca ai mali che la affliggono, serve un’epidemia di cecità “vera” per far aprire gli occhi a chi non vede. Mi si perdoni il gioco di parole, ma la sintesi è questa. “Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo ciechi, che pur vedendo non vedono”.

L’umanità è diventata cieca. Sin dalle prime pagine del libro si percepisce lo sgomento, la paura di un contagio che spazza via ogni nostro riferimento conosciuto. Forse è per questo che rileggere questo romanzo dopo ciò che il Covid ci ha insegnato, apre a riflessioni che qualche anno fa forse non avremmo fatto. Ad occhi chiusi il mondo vede ciò che aveva sotto gli occhi: la misera dimensione umana gonfia di egoismi e personalismi, di prepotenze e di furberie. La ode quasi come un rimbombo, la sente negli odori acri della decomposizione che diventa in breve parte integrante della narrazione. Tutti saranno colpiti dal male bianco, da una cecità lattescente che priva anche della dimensione del buio, affinché nessuno possa trovarvi rifugio, una non dimensione dove anche la fede si ritrova bendata tra santi e angeli che qualcuno finisce per bendare, che pure loro abbiano a vagare senza vista per l’eternità.

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dal romanzo di Saramago è stato tratto un film del 2008 diretto da Fernando Meirelles

Tutti ciechi, tutti eccetto una, perché l’unica anima a non essere colpita è una donna, perché siano i suoi occhi a raccontare a chi legge cosa accade. Perché in questo “Cecità”, Saramago non fa sconti a nessuno. Nello scenario di una distopica apocalisse, tra il lezzo dei corpi abbandonati tra le strade e straziati da branchi di cani randagi, tra i vagheggiamenti di altri branchi di umani che si spostano, senza punti cardinali, alla ricerca di cibo, tra il sudiciume di artefatti corporali abbandonati ove capita, perché quei corpi ora hanno come unico scopo la biologia della sopravvivenza. C’è tutto l’orrore del preventivo internamento dei contagiati, messo in atto come soluzione forse disumana, da chi vedendo ancora attraverso uno spiraglio di luce sperava in un improbabile contenimento della malattia. Tutto inutile. “In un governo di ciechi che pretende di governare i ciechi, senza futuro ed è come se il presente non esistesse”. Purtroppo quel presente esiste ed è la discesa degli inferi. La natura umana si manifesta con violenze, egoismi all’ennesima potenza, stupri sino a consumarsi nel male estremo: uccidere per sopravvivere. E innanzi a questo scenario, in cui il superfluo sublima nella cecità, i nomi scompaiono. Per Saramago sono il dottore, la moglie del dottore, il primo cieco, la donna con gli occhiali scuri, il vecchio con la benda.

Perché nessuno è e sarà ma più ciò che è stato, in una città senza nome, in una nazione senza nome. Il racconto è serrato, l’intensità emotiva cresce in modo direttamente proporzionale all’aumentare dei ciechi, tutto in quella scrittura che contraddistingue questo autore, fatta di periodi lunghi una pagina, di maiuscole improvvise, di punti e virgole che scompaiono. Svaniscono come la televisione, i cinema, i musei, l’estetica, il decoro, la pudicizia, l’igiene.

Crollata l’organizzazione sociale per come la diamo oggi per scontata, manca tutto e le strade si popolano dunque di zombie affamati e sporchi che qualche cieco, guidato dall’unica vedente rimasta a raccontare la storia, riesce ad aggirare giungendo ad un porto sicuro, recuperando pagina dopo pagina, quel senso di fratellanza che è la speranza alla quale Saramago vuole condurci. Un gruppo di sopravvissuti, cellula staminale di una società nuova, dove cresce una forma di solidarietà e di nuova tolleranza, dove umani tra umani si comincia a rivedere oltre il proprio naso, oltre la propria casa, al di là del proprio cortile. Suona come un monito questo libro di Saramago, ma purtroppo non credo basterà ad abituarci a tenere gli occhi aperti e a smettere di far finta di non vedere come è ingiusto il mondo.
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